Muscoli a pezzi, respiro affannoso, tosse, occhi rossi, capelli bruciati: ieri è stato l’inferno!
Mentre mi accingevo a rientrare a Lecce per il Consiglio Comunale, una lingua di fuoco alta come un palazzo si è presentata alle finestre del piano primo della mia abitazione, sospinta dal forte vento di scirocco.
Una frazione di secondo per prendere tutte le decisioni: evacuare immediatamente casa, prendere i cani e portarli in sicurezza, chiudere le bombole del gas, aprire tutti gli irrigatori e tenere al sicuro la propria famiglia al mare, in acqua
Poi, decidere di tornare all’inferno per accertarsi che tutti i residenti del villaggio si fossero messi in salvo, fare casa casa, suonare tutti i campanelli nel caso qualcuno fosse rimasto intrappolato, controllare la chiesa, aiutare una signora che si era sentita male, più per lo spavento che per il fumo inalato, e chiamare l’ambulanza per i soccorsi del caso.
Poche autobotti, pochi mezzi e pochi uomini che oggi mi sento di ringraziare, ad uno ad uno, per il sacrificio e l’abnegazione con cui hanno operato in condizioni che definire proibitive sarebbe un eufemismo.
Il fuoco che avanzava inesorabile verso le abitazioni, le tettoie in fiamme, la vegetazione dei giardini a fuoco, le pompe per irrigare incredibilmente sciolte.
Erano troppi i focolai nella marina e troppo pochi i mezzi messi a disposizione che dovevano, comunque, fare da spola da una parte all’altra della marina per rispondere alle centinaia di chiamate.
Non c’era più un secondo da perdere, occorreva fare qualcosa, subito, senza perdere altro tempo.
E così, mentre a Lecce si discuteva ancora se fare o meno il Consiglio Comunale previsto per le 15.30 (poi rinviato ad oggi), sottovalutando evidentemente quanto stava accadendo nella marina, insieme ad un Vigile del fuoco in pensione, ai suoi figli, a mio cognato e a qualche altro coraggioso residente abbiamo iniziato darci da fare per fronteggiare il fuoco.
Iniziando da Via Itaca, e passando da Via Corfù, Via Lepanto e Via Patrasso, con l’ausilio di un solo mezzo della protezione civile di Lecce guidato da Gaetano Lipari (che ogni 5 minuti era costretto a fare rifornimento di acqua per poi tornare prontamente e che ringrazio per l’umanità dimostrata prima ancora che per la professionalità), ci siamo attrezzati con le pompe e i secchi e, scavalcando di casa in casa, abbiamo spento i vari focolai, le tettoie, gli ombreggianti, gli alberi e, persino, i tavoli da ping-pong; abbiamo rimosso gli arredi in legno e le bombole del gas dalle case evacuate in fretta, il tutto in un clima surreale, con un cielo nero pieno di faville incandescenti che bruciavano i vestiti, la pelle, i capelli.
Ci è andata bene! A parte un po’ di intossicazione per il tanto fumo inalato, qualche abito bruciato e un po’ di capelli in meno, siamo riusciti a limitare i danni, abbiamo salvato gran parte delle abitazioni, spento le fiamme sulla cassetta dell’Enel sulla via Corfù, scongiurato eventi più gravi ma, al contempo, ci siamo sentiti abbandonati a noi stessi per tre lunghissime ore.
Questo non è il momento né tanto meno il luogo per fare ulteriori considerazioni su un evento che è stato certamente di natura dolosa e che ha devastato un’intera marina, la nostra marina.
Ci sarà certamente il luogo e l’occasione giusta per fare le doverose considerazioni.
Oggi i miei occhi sono ancora rossi, non più per il fumo, ma per il dolore e la rabbia.
Quanto sopra è la realtà di quanto accaduto ieri a San Cataldo al netto delle foto, dei video e delle interviste apparse incredibilmente sui social mentre ancora la gente spegneva quel che restava dei propri giardini e abitazioni.
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