Di seguito la trascrizione dell’omelia pronunciata a braccio dall’Arcivescovo di Lecce, monsignor Michele Seccia in occasione dei funerali di Daniele De Santis, il giovane ucciso lunedì sera assieme alla sua compagna Eleonora Manta:
“Cari fratelli e sorelle, carissimi genitori e amici di Daniele, è difficile in questo momento anche fare la predica, perché comprendo e vedo ciò che avete nel vostro cuore.
Ma vi esorto ad aprire una parentesi se volete bene a Daniele.
Noi uomini non abbiamo ancora il collante speciale per rimanere attaccatialla vita, abbiamo solo la capacità di rompere, di sconquassare, purtroppo. Ma questa celebrazione, e soprattutto la Parola di Dio che abbiamo ascoltato, ci suggeriscono considerazioni molto belle.
L’uomo sa quando nasce e non sa quando muore, nessuno di noi lo sa. Ma la nostra vita dipende da come la viviamo, dai valori in cui crediamo, da ciò per cui sentiamo di impegnarci. Anche nello sport, anche nello stare insieme con gli altri, anche nelle relazioni che possono variare ma, se non rispettiamo la dignità della persona umana, immagine e somiglianza di Dio, vince la concorrenza, la competizione che però non deve mai arrivare a gesti del genere. Mai!Gesti che diventano, lo dico davanti al Signore, ancora più disonorevoli per chi li compie se poi nontrova in sé il coraggio di abbandonarsi alla giustizia: nessuno può farsi giustizia da solo.
Ecco perché dobbiamo continuare a pregare per Daniele; perché proprio la violenza di questa morte possa diventare speranza eterna. Perché Dio solo conosce il cuore, non siamo noi a dover giudicare. Ma è la misericordia di Dio che deve contare, è il capire veramente che anche la concorrenza nel gioco come nelle relazioni, se è leale è degna dell’uomo; se non è leale è degna dell’inferno.
Il Signore che ben conoscendoci, dall’alto della croce ha detto una volta per sempre: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34). Se valeva per Gesù, che pure aveva fatto miracoli, aveva predicato, aveva attirato a sé le folle…immaginate per noi. Egli, nonostante fosse il Figlio di Dio, è stato, non solo uccisoma anche trafitto dopo la morte. lodico sempre (mostrando la croce pettoralendr) che questo crocifisso non è un simbolo, ma uno specchio per ciascuno di noi. Non è un soprammobile, non è una medaglia. La croce interpella la vita di ciascuno e mette in crisi la nostra fede. Anche oggi davanti alla salma di Daniele.
Ecco allora la doppia valenza di questa celebrazione. Da una parte: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”, (Lc 23,34) ma dall’altra“Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi” (Mt 11,28). Gesù ci invita così: “Venite a me voi che siete stati emarginati dalla vita, venite a me voi innocenti, voi che siete vittime di vendette che non trovano giustificazione agli occhi di Dio”. Ecco il senso di questa eucarestia che ho voluto presiedere personalmente. Davanti a questi fatti il pastore non si gira dall’altra parte, non guarda altrove. Non sono qui per dare solennità ma perché anche io ho la necessità di comprendere quanto io stesso sia coerente con la Parola che abbiamo ascoltato. La Parola di Dio è lo specchio della condanna e della speranza: essa giudica e promette salvezza.
Possiamo noi far ritornare una vita che è morta? Possiamo noi essere datori di vita? Ecco allora il percorso che nella fede, partendo dal battesimo ci responsabilizza tutti. Oggi questa è la Parola di speranza, è la certezza che “i giusti sono nelle mani di Dio”. Chi di noi vuole morire? Nessuno, ma nello stesso tempo dobbiamo essere pronti.
Guardate la storia: Caino andava errando dopo aver ucciso Abele, non trovava pace. Nel cuore di ciascun uomo c’è lo spirito di Caino e c’è quello di Abele: dobbiamo dominare il primo. Chiediamo a Dio ravvedimento e coraggio per chi ha commesso questo atroce delitto, ché si consegni, si costituisca. Solo Dio può toccare il cuore di pietra di chi ha compiuto un simile gesto. Anche chi ha commesso questo gesto efferato, come Caino, non troverà pace fin quando non ammetterà la propria responsabilità e non confesserà la propria colpa. Si spenga – il mio è un appello che parte dal cuore – la vigliaccheria di chi non si manifesta. A noi rimane il dovere della preghiera e della speranza: nessuno di noi è padrone della vita.
Preghiamo perché il Signore ci aiuti a vivere questa esperienza. Non sia chiuso il nostro cuore alla speranza per Daniele e per l’omicida, lo dico con convinzione, perché l’omicida è ancora più disperato di noi, di voi ragazzi, ecco perché preghiamo anche per lui.
L’unica speranza è questa, che il Signore ci dia la forza di attraversare questi momenti così desolanti e così carichi di tensione nella nostra società, nella nostra vita, nella nostra diocesi, non perdiamo la speranza.
Il Signore ci dia questa capacità perché è l’unico modo con cui possiamo veramente accompagnare Daniele alla presenza di Dio. Amen”.
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