Monsignor Michele Seccia, Arcivescovo di Lecce
“A ciascuno di voi, giunga il saluto da questa piazza che, dopo mesi di silenzio forzato, nelle ultime settimane – complice la stagione delle vacanze -è tornata, sia pur in un tono più dimesso, a ripopolarsi di turisti e di amanti dell’arte e della bellezza.
Lì, in cima al nostro campanile, dall’alto del cielo dove abita al cospetto della Trinità, Oronzo mostra fiero la palma del martirioe sembra volerci ricordare,da una posizione visibile da tutta Lecce,che il dono della vita a motivo della fede è la più alta forma di gratitudine verso il Creatore e Padre di tutti noi.
Ecco cos’è il martirio, cari miei: consegnare totalmente la nostra vita nelle mani di Dio, affidare a lui le nostre gioie e le nostre fatiche. Essere certi che tutte le nostre sconfitte quotidiane, le incomunicabilità tra marito e moglie, i tradimenti, le discussioni tra un padre e un figlio, le liti tra fratelli, le incomprensioni tra un vescovo e i suoi preti, le preoccupazioni quotidiane, persino le maldicenze che ci feriscono – come anche la paura del contagio che in questi mesi accompagna la vita di tutti noi – sono i piccoli martiri cui il signore ci chiama ogni giorno. Essi vivono nel suo cuore e sono in mani sicure. Forse, alcuni quando pensano ai nostri santi patroni li immaginano comese fossero eroi. Non è così:essi non sono fuggiti di fronte alla morte non perché erano super uomini ma perché sono stati conquistati dal Signore e hanno riposto nel cuore dell’Amato tutta la loro fiducia. Hanno consegnato la loro vita – fino all’effusione del sangue – nelle sue mani. Proprio come succede tra due sposi fedeli. Proprio come succede per i genitori verso un figlio: sono pronti a tutto per amore. Proprio come dovrebbe succedere per ogni innamorato di Dio.È qui il fulcro di ogni martirio e, direi, è qui il senso della vita di ogni credente. Ecco perché alla base di ogni atto di fede, all’origine del nostro stesso battesimo, c’è un atto d’amore.
Questa sera, le statue dei nostri santi, come ogni 24 di agosto, erano pronte per essere portate in processione. Purtroppo la situazione che stiamo vivendo suggerisce cautela e prudenza. Ma, siamone certi: se stasera apriremo le porte,Oronzo, Giusto e Fortunatoentreranno nelle nostre case, visiteranno la nostra vita, le nostre famiglie e, come buoni samaritani, cureranno le nostre ferite.
Il virus, che ancora oggi sta contagiando il mondo, ci ha fatto scoprire chi siamo davvero donne e uomini fragili, poco preparati ad affrontare le avversità, a rispondere adeguatamente e in tempi brevi alle catastrofi, anche se molto avanzati nella conoscenza scientifica. Più volte in questi mesi siamo stati tutti richiamati al senso di responsabilità che dovrebbe essere patrimonio di ogni persona. Anch’io mi lego a questo appello rivolgendomi soprattutto ai giovani che nelle ultime settimane sembrano essere diventati i principali diffusori del contagio e che tra qualche settimana speriamo possano tornare a scuola in sicurezza e in serenità.
Ragazzi miei, non vi chiedo di rinunciare al divertimento.Vi invito invece a divertirvi senza rischiare, senza essere un pericolo per voi stessi e per i vostri amici. Siate fecondi collaboratori di un dialogo che va oltre il rispetto delle norme e oltre ogni sterile moralismo. Io stesso sono il primo ad accettare le critiche ma vorrei anche essere il primo a ricordarvi da padre che nessuno di noi oggi è fuori pericolo.Le immagini delle bare sui carri militari, le storie dei medici, degli operatori sanitari e dei sacerdoti che ci hanno lasciato nei mesi scorsi solo perché “colpevoli” di aver fatto il proprio dovere,appartengono ad una triste parentesi della nostra vita a cui manca la parola fine. Perché dobbiamo continuare a scrivere racconti di dolore, di paura, di morte?
A noi adulti, laici e consacrati, tocca invece recuperare credibilità e verità. Siamo davvero pronti ad educare i nostri ragazzi ai valori della libertà e della corresponsabilità? Come vescovo di questa città e di questa Chiesa devo pormi e devo porvi queste domande. Non posso nascondervi la mia preoccupazione. Lo so bene non è facile. Non abbiamo molti alleati: le famiglie spesso in crisi o disgregate – anche a causa di condizioni sociali disastrose – non hanno né il tempo, né la forza di educare ai valori. Per non parlare della politica che diventa ogni giorno di più un vuoto contenitore di slogan. Mi sembra, a volte, che siano in aumento sempre di più i seminatori della divisione e che, invece, diminuiscanoi “contadini”bravi a rassodare il terreno delle coscienze.E anche le nostre comunità cristiane hanno perduto l’appealnecessario per attirare i giovani alla vita buona del vangelo. Di questo come Chiesa di Lecce, preti e laici, dovremmo assumerci tutte le responsabilità del caso e provare ad invertire la rotta.
Se la pandemia non è servita a farci cambiare prospettiva, insegnandoci l’essenzialità della vita,sarà stata un’esperienza inutile, un tempo semplicemente da cancellare. Invece no, anche la pandemia potrà diventare provvidenza se saremo capaci, una volta per tutte di cogliere i segni dei tempi per diventare migliori. Quando sarà passata, oltre a rimanere nella nostra memoria come un brutto ricordo, sarebbe utile che restasse pure come un’esperienza di conversione dell’uomo e del credente che è in noi. Siamo pronti a convertirci a Dio? Oronzo lo fece con coraggio e senza freni inibitori qualche millennio fa. Ora tocca noi.
Come si fa? Ce l’ha suggerito Papa Francesco quella notte di pioggia incessante in una Piazza San Pietro vuota ma illuminata dallo splendore dell’eucarestia che egli sollevò per benedire il mondo in piena bufera: “Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa – disse il Papa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”.
Insieme, sulla stessa barca. Non è una parola magica. È il senso vero del nostro stare qui. Ed il segreto del nostro voler ri-partire. Per tutto il lungo lockdown, insieme, sulla stessa barca, nel mare in tempesta, abbiamo riscoperto l’amore vicendevole, declinazione evangelica della più laica “solidarietà”. Sarà stata la paura della malattia e della morte? Non so darvi una risposta certa. Ciò che è certo, invece, è che quando crollano le nostre smanie di onnipotenza, diventiamo tutti più buoni, diventiamo cercatori di Dio. Che per noi è L’ESSENZIALE.
Lo abbiamo cercato pregandolo e invocando la liberazione dal virus ma, lo abbiamo cercato anche aprendo gli occhi, il cuore e anche il nostro portafogli alle povertà. Nel silenzio e nella semplicità a nessuno abbiamo negato una parola buona, un aiuto materiale, un pezzo del nostro pane quotidiano. Condividendo con i poveri la stessa barca e la stessa tempesta ci siamo riscoperti poveri anche noi e bisognosi di aiuto.
Ma insieme, sulla stessa barca, ci sono anche i nostri fratelli migranti. Mi unisco anch’io all’appello del mio fratello vescovo di Nardò-Gallipoli e figlio di questa Santa Chiesa di Lecce, don Fernando Filograna, intervenuto nei giorni scorsi per ricordare a tutti noi, dopo lo sbarco di 80 fratelli disperati a Porto Selvaggio che anche ogni povero che approda sulle nostre coste è sulla nostra stessa barca. E nemmeno la paura del contagio, che sembra essere diventata il nuovo alibi di tanti profeti di sventura, potrà mai dispensarci dal vivere il comandamento dell’amore che è l’arma vincente di chi vuole diventare profeta di speranza.
E la speranza per la nostra Chiesa locale si è trasformata da gennaio a giugno in gesti concreti d’amore fraterno. Un numero per tutti segna il cammino della nostra ri-partenza: 28mila pasti distribuiti in sei mesi nelle mense della Casa della carità e di Santa Rosa e poi tanta, ma proprio tanta generosità da chi meno ce l’aspettavamo.
Nelle prossime settimane la speranza assumerà anche il nome di “Fondo San Giuseppe”. È la nuova sfida della nostra Chiesa di Lecce che presenteremo a breve. Si tratta di un fondo al quale ciascuno potrà destinare il proprio contributo: i privati, le aziende, le raccolte delle parrocchie e delle associazioni laicali… La Caritas non distribuirà denaro ma, dopo aver intercettato le offerte di lavoro del nostro tessuto imprenditoriale, offrirà a chi purtroppo è rimasto senza lavoro per via della pandemia, l’opportunità gratuita di riconvertirsi professionalmente attraverso percorsi di formazione che mettano i nuovi poveri nelle condizioni di poter ricominciare.
Ecco la speranza. Il dono di questa festa patronale diversa ma che ci consente di ricominciare. Insieme. Sulla stessa barca. Anche dopo la tempesta. Siano nostre bussole nella navigazione la Vergine Assunta in cielo, titolare della nostra chiesa cattedrale e i nostri santi patroni, Oronzo, anzitutto, esperto in liberazioni dalle epidemie e poi anche Giusto e Fortunato, nostri intercessori presso il Padre. Così sia”
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