LECCE – Nei giorni scorsi una vistosa scritta realizzata da un writer è apparsa su un muraglione dei primi del Novecento costruito sui resti di un molo romano a San Cataldo (Lecce), uno degli esempi di strutture portuali di età romana meglio conservati del territorio pugliese. Un episodio che, secondo il professor Giuseppe Ceraudo, docente all’Università del Salento di Topografia antica e coordinatore del Labtaf, Laboratorio di Topografia Antica e Fotogrammetria del Dipartimento di Beni culturali dell’Ateneo, «riaccende i riflettori sul tema della sicurezza dei luoghi della cultura, dei monumenti e delle opere d’arte». Tra il 2004 e il 2015 diversi progetti di ricerca coordinati da UniSalento sono stati condotti sul “Porto dell’Imperatore Adriano”: il sito dunque, oltre ad avere notevole importanza storica, ha grande valore per l’attività scientifica, poiché è stato un vero e proprio cantiere didattico e laboratorio a cielo aperto per molti studenti, che vi hanno fatto la loro prima esperienza di scavo, e per alcuni promettenti ricercatori che sono stati coinvolti in tutte le fasi delle attività.
«Mi auguro che questo gesto sia frutto della mancanza di conoscenza della storia e della bellezza del nostro territorio, ma anche delle sue potenzialità», aggiunge Ceraudo, «e può forse rappresentare l’occasione perché si avvii una nuova azione corale tra le principali istituzioni e associazioni coinvolte – Mibact, Comune, Regione e Università in primo luogo – per lo sviluppo di rapporti su temi di interesse comune. Nel rispetto delle diverse competenze e prerogative istituzionali, occorre collaborare per riportare l’attenzione su questo prezioso e purtroppo dimenticato monumento e per una definitiva riqualificazione del paesaggio costiero leccese, che possa concretamente tutelare e valorizzare quale risorsa strategica per la crescita culturale ed economica del territorio il Porto dell’Imperatore Adriano, un prezioso bene culturale unico nel suo genere in Puglia».
Così Ceraudo ricostruisce la storia del monumento e le ricerche condotte sul sito dall’Università del Salento: «Già nel 1913 il grande scienziato salentino Cosimo De Giorgi denunciava lo stato di degrado in cui versava la struttura e così ne descriveva i resti: “un rudero venerando dell’antichità: voglio dire un muro mezzo diroccato e coperto di sabbia che parte dal continente dietro la cappella di San Cataldo e si interna nel mare in direzione di levante. È l’ultimo avanzo di un molo costruito dai Romani nel secondo secolo dell’era volgare per difendere dall’urto dei marosi una piccola insenatura che formò il porto dell’antica Lupiae. Quando io lo vidi e lo esaminai nel 1900 – prima che i moderni ostrogoti avessero compiuto su di esso l’ultimo e il più feroce dei vandalismi! – era lungo 64 metri e largo 17 fra le due parti esterne, formate da massi giganteschi di pietra squadrata. Questi racchiudevano nel mezzo una massa durissima di quell’opus incertum o coementicium di Vitruvio che i moderni appellano calcestruzzo; si elevava per circa tre metri sul mare, ed aveva le sue belle colonnine d’ormeggio in marmo e granito”.
Pausania, scrittore greco del II secolo d.C., attribuisce all’Imperatore Adriano (117-138 d.C.) la costruzione di un molo artificiale, tuttavia è lecito pensare che un approdo che servisse la città di Lecce fosse attivo già dall’età messapica. Altre fonti fanno riferimento al porto di Lupiae come punto di sbarco del futuro Imperatore Ottaviano Augusto, proveniente da Apollonia nel 44 a.C., il che fa ipotizzare che tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale il porto doveva essere già munito di alcune infrastrutture, in seguito ulteriormente potenziate da Adriano.
Dopo l’età romana non si hanno notizie sul porto, almeno fino al XV secolo all’epoca di Maria D’Enghien, quando questa costruzione venne inglobata da un nuovo molo, anch’esso ormai distrutto. Lo scalo portuale fu utilizzato per quasi tutta l’età moderna e, dopo un periodo di abbandono, agli inizi del XX secolo parte dell’antica struttura fu smantellata e i blocchi vennero riutilizzati per la costruzione di una scogliera frangiflutti.
Solo di recente il sistema portuale antico nella rada di San Cataldo come anche il territorio, così strettamente connessi alla città di Lecce, hanno cominciato a rivelare le loro potenzialità grazie all’attività coordinata di diversi gruppi di ricerca dell’Università del Salento nell’ambito del progetto “Portus Lupiae”.
Un primo importante intervento sul molo è stato condotto tra il 2004 e il 2007, e ha permesso di definire le caratteristiche edilizie e le tecniche costruttive, ma soprattutto si è lavorato sul contesto topografico dei luoghi per cercare di ricostruire l’originario paesaggio di questo tratto di costa, con le dinamiche insediative e i collegamenti anche in rapporto con la città di Lupiae. A tal fine dal 2008 sono state condotte apposite ricognizioni aeree, integrate da un minuzioso lavoro di fotointerpretazione su foto aeree storiche e su immagini satellitari. Allo stesso tempo sono state effettuate indagini mirate di ricognizione e documentazione subacquea delle poderose strutture sommerse. Prospezioni geofisiche (magnetometriche e georadar) hanno permesso di “vedere” nel sottosuolo nello spazio aperto antistante il Faro di San Cataldo. Dati molto interessanti sulla storia recente del molo sono poi emersi dallo studio del materiale d’archivio.
Infine, dal 2013, il molo è stato oggetto di alcune campagne di scavo volte a una maggiore comprensione della struttura e preliminari alla pianificazione di interventi conservativi. Le indagini sono state accompagnate dall’utilizzo della fotografia aerea realizzata con i droni, finalizzata alla creazione di un rilievo fotogrammetrico e alla realizzazione di un modello 3D come supporto all’elaborazione tridimensionale della proposta ricostruttiva del porto romano. Aggiungendo ai resti documentati a terra quelli rilevati in acqua, la struttura nel suo complesso raggiunge una lunghezza complessiva di quasi 150 metri, con un caratteristico andamento semilunato.
Sono state inoltre eseguite sia analisi archeometriche sui materiali lapidei per individuare le cave di provenienza dei blocchi, sia datazioni al radiocarbonio sui resti lignei individuati in acqua per definire le cronologie assolute. In sostanza è stata svolta un’attività di ricerca articolata e complessa, che ha dato risultati oggetto tra l’altro di diverse pubblicazioni scientifiche e divulgative e di comunicazioni in convegni internazionali».
Facebook
Instagram
RSS