È una mattina come tante. In un furgoncino viaggiano in condizioni pietose dodici braccianti di origine africane. Come ogni giorno vengono trasportati sui campi, a lavorare in un regime che ricorda quello della schiavitù. All’improvviso l’impatto. Il veicolo si scontra contro un camion ed è la tragedia, nessuno di quei braccianti si salverà. Vittime di un caporalato che un tempo combattevano i nostri contadini e che ancora oggi persiste come fenomeno incontrastato, sfruttando la povertà e la disperazione di tanti che partono da paesi martoriati dalla guerra verso il Bel Paese e una volta arrivati in Italia non trovano quel futuro migliore tanto agognato. È da questo terribile fatto di cronaca che Annibale Gagliani trova spunto per scrivere il suo “Romanzo caporale” , pubblicato di recente da I Quaderni del Bardo di Stefano Donno con prefazione di Fabrizio Peronaci, giornalista de Il Corriere della Sera e postfazione di Raffaele Gorgoni, inviato di guerra RAI.
È impossibile non lasciarsi prendere dalla copertina del libro, dove ad accogliere l’occhio del lettore c’è la foto scattata da Massimo Bietti, fotoreporter premiato dal National Geographic, in cui emerge un bambino africano, dagli incredibili occhi azzurri che tanto entrano in contrasto con il colore scuro della sua pelle. Una figura che ricorda quell’Alì raccontato da Pier Paolo Pasolini, a cui si fa cenno anche nel romanzo. Ma non è l’unica particolarità del libro di Gagliani che, con uno stile metaforico tutto suo, che lo contraddistingue di certo dagli altri autori del panorama letterario nostrano, ci trasporta in un mondo fatto di immensa sofferenza, di grande sacrificio e di immortale speranza. Un mondo in cui il protagonista non ha un nome – l’autore esorta il lettore a dargliene uno – perché quello che accade a quell’uomo è ciò che accade a un buon numero di immigrati. Il sogno di una vita migliore che stenta ad avverarsi in una lotta quotidiana estrema.
E poi ci imbattiamo in una serie di figure femminili, simbolo dell’aspirato amore, che purtroppo vengono a mancare l’una dopo l’altra per mano della violenza maschile, in un duello in cui i due generi sembrano rappresentare il bene e il male. E il protagonista senza nome ogni volta deve ricominciare daccapo, come se l’avverarsi di un’esistenza felice venisse costantemente ostacolato dalla bestialità e dalla cattiveria umana. Ciò che emerge in questo racconto è anche la profondità d’animo dell’uomo e la sua grande conoscenza e intelligenza, a discapito di chi pensa che chi nasce in luoghi come il Kenia, terrà d’origine del protagonista, non possa avere un’istruzione e delle capacità intellettive al pari degli Occidentali. In tutta la crudezza e la malvagità del caporalato i braccianti non sono considerati esseri umani, ma semplicemente carne da esporre alla terra per arricchirsi, e pazienza se c’è chi muore sotto il sole cocente, basta sotterrare il cadavere in un punto sperduto nelle campagne come se fosse un animale.
“Romanzo caporale” è un libro che porta a riflettere e che può dare un contributo importante nel combattere le attuali dilaganti e pericolose ideologie razziste, attraverso una storia che prende vita nel caldo africano e termina in quello della Cava di Bauxite, luogo emblematico per l’intera storia del nostro sfortunato eroe, che voleva cacciare le lucciole e si ritrova invece nel buio più assoluto. Quel buio dell’infelicità e della propria pelle in contrasto con i suoi occhi azzurri e il suo desiderio di una felicità che forse non arriverà mai.
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“Romanzo caporale”. Gagliani racconta le tragedie del caporalato
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