“Per sapere quello che vuoi diventare, devi sempre sapere quello che sei stato. Se non lo sai, non arrivi in nessun posto”. La dichiarazione di Emanuele Macaluso, rilasciata durante un documentario incentrato sulla svolta della Bolognina, ha del profetico. Emma in corsivo, nickname utilizzato sui social, lascia la terra dei vivi due giorni prima del centesimo compleanno del Partito Comunista Italiano e, caso strano, il medesimo giorno in cui Bettino Craxi si spense ad Hammamet, in esilio. Una morte rivelatrice, oserei dire. Sempre che fede e simboli abbiano ancora una certa valenza in un mondo piegato ai capricci del nichilismo e del relativismo.
Emanuele Macaluso, classe di ferro e siciliano per cultura, vantava di essere l’unico comunista ancora in vita della segreteria di Togliatti. Figlio di un ferroviere iscritto al Fascio per quieto vivere, si gettò a capofitto nell’occupazione dei feudi, guidando le masse contadine, uomini e donne dalle mani sporche di fango verso un nuovo orizzonte. Quei dannati di Victor Hugo, che oggi una sedicente sinistra pretende di appagare con manovre di palazzo e con la saccenteria di un freddo intellettualismo, peraltro fine a se stesso. Erano gli anni di Portella della Ginestra e del banditismo, degli agrari sostenuti dalle lupare di Cosa Nostra. Ma erano anche gli anni dell’identità collettiva, dello scontro aspro nelle piazze e nella tribuna politica di Jader Jacobelli; quell’Italia “non più nera nel viso” era pronta a risorgere dalle proprie macerie per svegliarsi in un mondo diviso in due. Due visioni, due paradisi antitetici. Non è mio intento ripercorrere la biografia di Emanuele Macaluso, ci penseranno i giornalisti, come il brillante Concetto Vecchio, i compagni di vita e di partito ad assolvere questo compito. Per frenare il potere di Thanatos è fondamentale salvaguardare la fiamma, l’eredità lasciata ai vivi.
L’ipocrisia non si addice ai giusti e non è tollerata dagli abitanti del secolo scorso. Un secolo breve, perciò sfacciato, vero, crudo, che non ammette le zone d’ombra, la timidezza dei posteri. Chi era Emanuele Macaluso? Era un comunista e un garantista. Inutile girarci attorno. Un migliorista amareggiato dai tempi che corrono, dall’inadeguatezza della classe dirigente che si definisce democratica per colmare il vuoto identitario. Come se l’appartenenza e la provenienza politica fosse un qualcosa di cui vergognarsi, un fardello anacronistico, una palla al piede, un cappotto fuori moda.
Emanuele Macaluso era un eretico, uno spirito libero e coraggioso. Circa quattro mesi fa, mentre il segretario del Partito Democratico incitava la base a schierarsi per il SI al referendum sul taglio dei parlamentari, balbettando un apocalittico “chi vota no lo fa per indebolire il governo”, Macaluso contrattaccava “Voto NO perché non ho dimenticato né l’origine di questa riforma né come è stata festeggiata dai grillini: davanti al Parlamento uno striscione con tante poltrone e loro con una grossa forbice tagliavano i seggi! Altro che poltrone!”. I suoi novantasei battesimi del fuoco gli permettevano di dire ciò che la classe democratica osava solo pensare, di praticare quello che i nuovi dirigenti possono solo predicare. E ancora le sue accuse contro lo stato liquido del partito, contro la subalternità dei progressisti nei confronti delle toghe politicizzate (rispolverate pure le bacchettate dell’ottobre scorso, indirizzate a Davigo, Travaglio e compagnia bella) l’ostinazione nel segnalare l’agonia del sistema democratico e le degenerazioni dello stato repubblicano.
“Non c’è più dibattito politico, non c’è più confronto, non c’è più scontro politico. I tre elementi per cui la politica diventa politica non ci sono. E’ un periodo di mediocrità”.
Ricordo la sua presenza a Campi Salentina in occasione della “Città del libro”, a Lecce durante le “Giornate del Lavoro” promosse e organizzate dalla Cgil, di cui Macaluso era stato un autorevole dirigente. Ricordo il suo passeggiare a braccetto in piazza della Rotonda con Ugo Sposetti, gli ultimi dei Mohicani. O forse, non proprio gli ultimi. Un uomo testardo, un compagno curioso dei bisogni dell’epoca nuova, allergico ai formalismi e alle terze vie. Insomma, un interlocutore con il quale ci si dà del tu e ci si chiama per cognome, come la “old school” insegna.
La mia generazione ha il dovere di ripristinare la solennità delle cose che furono, la dimensione tragica ed eterna della politica, di rendere una stella polare a tutti coloro che ancora credono, soffrono, sperano e vogliono avere un volto, una voce, una nomenclatura nell’arena. Ricordate “Il posto delle fragole”, il film di Ingmar Bergman del 1957? E’ la storia di Isak Borg, un illustre professore che si ritrova catapultato in un incubo, in una città sconosciuta dove gli orologi sono privi di lancette. Solo attraverso il ricordo delle fragole potrà intraprendere il viaggio che ridarà un senso alla sua esistenza. Emanuele Macaluso avrebbe voluto che una nuova generazione riscoprisse i sapori e le energie del bosco perduto, per edificare la città futura. Senza vergogna o tentennamenti.
Oggi, se ne va Emanuele Macaluso. Un comunista. Allora, presentiamoci. Se prenderemo coscienza di ciò che siamo stati e capiremo cosa vogliamo diventare, Emanuele Macaluso non sarà vissuto invano. Sarà un duello contro i mulini al vento? Dovremo sgolarci nel deserto? Non importa. Lo faremo. Non moriremo ex o post di noi stessi. Certe storie, storie come la sua, non possono essere liquidate con un requiem, meritano la forza e l’entusiasmo dell’Internazionale.
Adattando Franz Grillparzer “se il nostro tempo ci vuole avversare, lo lasciamo fare tranquillamente. Noi veniamo da altri tempi, e in altri speriamo di andare”. “Si tibi terra levis, Compagno”.