Otranto 1524 / Storie di santi, falsari e il “giallo” delle epigrafi.
Summarium
La tragedia dei Martiri di Otranto la conosciamo tutti o quasi. Per chi nulla sapesse di questo evento sanguinoso del 1480 lo troverà riassunto fino all’essenziale a breve. E’ una di quelle storie in cui la componente religiosa ha scavato e, aspetto poco noto e considerato oggi più che mai, scava ancora nelle coscienze di chi ha abitato e abita quella città e territorio. Provate a immaginare, quindi, se qualcuno sostenesse, anche solo come ipotesi, la falsità di una delle prove fondamentali usate in uno di quei processi che hanno portato alla beatificazione prima e, con quest’ultima, poi alla santificazione degli Ottocento (tante circa furono le vittime dell’eccidio). Ebbene: è accaduto. E’ stata davvero avanzata quell’ipotesi, per alcuni dal sapore nefasto, cui si accennava. Ne parleremo, analizzeremo le evidenze oggi a disposizione e riteniamo di poter confutare l’ipotesi di falsità, in particolare, relativa proprio a quel paio di epigrafi usate come prova determinante nel processo di beatificazione del 1771. Ultima nota più che mai di colore visto che riguarda le fotografie: per le immagini a corredo di quest’analisi, al di là di quelle tradizionali, perché strettamente necessarie per mostrare le epigrafi e la loro posizione, si è optato per altre, più inconsuete, possiamo dire addirittura anche mai viste. Sono fotografie non facili perché relative a punti dimenticati e poco praticabili delle oramai celebri colonne otrantine, l’opera più nota di Gabriele Riccardo (notizie: 1524-1572). E per tutto questo è stato necessario costruire una scena in cui, riverberandosi certo agire caravaggesco, si è previsto l’uso di uno specchio che dà al termine riflessione il suo doppio senso di speculazione e fenomeno ottico. Ci riferiamo a quelle immagini che rappresentano i punti dell’opera in cui l’artista, Riccardo, ha finito di scolpire per gli altri e lo ha fatto solo per se stesso; sono cioè le parti più nascoste e riservate solo agli occhi dello scultore ma anche a quelli di coloro, come chi leggerà le righe a seguire, che amano aprirsi alle domande della storia (Figg 11-35).
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Il contesto storico-critico
Le varie declinazioni che possono accompagnare il termine storia (religiosa, artistica, politica, militare, economica e così via), nell’ambito di quella meridionale e più specificatamente pugliese, acquistano un significato denso e singolare attorno a un particolare evento noto come la presa di Otranto. Nel 1480 un’armata turca si presentò davanti alle coste di quella città -quest’ultima dava il suo nome a una Terra, intesa come regione amministrativa, all’epoca ampia circa metà dell’attuale territorio pugliese- che dopo un lungo assedio fu conquistata e molti dei sopravvissuti, prigionieri, anche per ragioni legate alla loro fede cristiana, furono trucidati.
Così in estrema sintesi la vicenda che, fra le tante voci possibili cui si accennava, ha avuto un risvolto artistico più che interessante. Nel 1524 fu, infatti, “finalmente perfezionato” un altare voluto già subito dopo la riconquista della città avvenuta nel 1481 [1].
Fin dal primo momento, con il ritorno aragonese, il pensiero fu indissolubilmente legato alla santità di chi quel sacrificio aveva subito, e la proclamazione di quei testimoni (martiri) della fede fu riconosciuta ufficiosamente quando il suolo era ancora intriso del loro sangue.
La prima causa di quel lungo percorso, anzi processo, che avrebbe portato alla santificazione, da un punto di vista pratico, si avviò solo circa sessanta anni dopo quel 1480, ossia nella prima metà del Cinquecento quando si cominciarono a raccogliere le testimonianze dell’eccidio e non solo. Tale processo, però, non si concluse in questa prima fase perché, infatti, nella seconda metà del Settecento esso ebbe un ulteriore approfondimento.
Questa breve premessa, anche quando fosse stata più indulgente rispetto ai tanti dettagli della vicenda, non sarebbe riuscita a mettere, però, mai abbastanza in evidenza quel fenomeno carsico che si è presentato, ancora e soprattutto in tempi a noi più vicini, sotto la forma quasi velata, non del dubbio metodico come dovrebbe essere, ma di una sorta di pregiudizio che, entro certi limiti, potrebbe indurre il lettore a sottovalutare un aspetto, quello della fede, tanto semplice eppure così palesemente fondativo di quel tragico episodio otrantino.
In più casi editoriali si sono accostati alcuni aspetti della vicenda addirittura al «mito» [2]. L’uso di tale termine nel senso primo di «narrazione fantastica» [3] riferita a un evento che è, invece, reale potrebbe apparire ad alcuni poco felice perché presta il fianco a interpretazioni dell’episodio davvero fuorvianti. Rimangono poi forti perplessità circa l’uso riduttivo del termine “mito” quale sinonimo di “falso”.
«Le altre [le colonne del ciborio a Otranto, n.d.r.], magistralmente scolpite con motivi antiquari a grottesca, veicolano una narrazione biblica che culmina in una visione escatologica. La loro cronologia ha suscitato legittime perplessità, poiché le epigrafi riportate in esordio sono state manomesse (se ne accorge Houben, 2005). Le colonne furono una prova risolutiva nell’istruttoria avviata dalla S. Sede nel 1770-71, per l’accertamento del martirio subito dagli ottocento idruntini decapitati dai turchi nel 1480, che si concluse con la loro beatificazione. Chi scrive giustifica una proposta di esecuzione tra il 1539 e il 1556, su basi iconografiche e documentarie (Monaco, 2008)» [4].
In un’altra ricerca ancora, è stata avanzata l’ipotesi [5] che il processo, quello del 1771 conclusosi con la beatificazione come qui già ricordato, fosse fondato su una falsa prova costruita ad arte, ipotizziamo, nell’arcidiocesi di Otranto o nella diocesi di Lecce il cui vescovo di allora, mons. Alfonso Sozy Carafa, era stato incaricato di seguire quell’iter processuale.
Se il primo caso si potrebbe risolvere e superare come una questione di appropriatezza dei termini il secondo pone, invece, molti più problemi. E proprio di questo tratteremo.
La presunta falsità di una delle principali prove (due epigrafi poste sulle “colonne” idruntine che a breve avremo modo di analizzare in dettaglio) presentate nel processo di canonizzazione, infatti, obbliga a un’analisi più radicale di quanto rimane dell’altare realizzato nella cattedrale otrantina da Riccardo e dedicato a quei Martiri.
Il caso specifico impone di procedere secondo la reductio ad absurdum ipotizzando, cioè, che fra quelle due epigrafi e Riccardo, non vi sia rapporto alcuno.
Che tale noto artista sia avvolto da un alone di mistero è ampiamente noto e ciò perché poche sono le sue opere giunteci e ancora meno i documenti che lo riguardano direttamente. A complicare lo scenario hanno contribuito più recentemente anche alcuni studiosi il cui legittimo operato si è aggiunto alle difficoltà prodotte da quella successione di involontari, anonimi eventi che ha già privato la storiografia, in questi ultimi cinque secoli circa, di opere e documenti di quello scultore. E non stiamo riferendoci a ricercatori qualsiasi ma a docenti universitari di alto valore come Mario Manieri-Elia (https://www.accademiasanluca.eu/it/accademici/id/1026/mario-manieri-elia , 30 luglio 2018) e Hubert Houben (https://www.unisalento.it/scheda-utente/-/people/hubert.houben, 30 luglio 2018) i cui dubbi e domande non vanno né sottovalutate né, ovviamente, tralasciate.
Entrambi si soffermano su quanto rimane di un’opera di Riccardo in particolare ovvero i fusti e i capitelli delle colonne appartenenti alla distrutta cappella dedicata ai Martiri precedente l’attuale. Vi sono due epigrafi che per l’analisi che a breve seguirà appaiono più importanti di tutte le altre presenti; l’una con il nome di quell’artefice e l’altra con, pure inciso, l’anno (a caratteri romani), il 1524. Ed è proprio questa presenza di nome e anno, caso unico fino ad oggi fra tutte le opere ascritte a tale scultore, a sollevare domande, dubbi, e con essi problemi storico-critici degni della massima attenzione.
Più esplicativo di tutto in tal senso è uno scritto di Houben [6] che qui riproporremo a breve nelle sue parti essenziali. Per il resto basti dire che Manieri-Elia nel 1982 ritenne l’anno, il “1524”, un “errore di incisione” e più plausibile, invece, il “1574” [7].
I dubbi di carattere generale sollevati da quest’ultimo studioso -a proposito, ribadiamolo per semplicità, dell’arco temporale relativo alla durata dell’attività artistica di Riccardo- nel 1989 furono oggetto di una parziale confutazione da parte di Cazzato [8] che, però, definendoli «ragionevoli», di fatto, non sciolse nello specifico proprio il caso delle “colonne” otrantine: si trattava davvero del “1574”?
«Riserve sulla data del 1524 […]» [9] sono espresse anche in un altro studio a firma di Monaco [10].
A ben vedere alla base di questo problema (la post-datazione al 1574 dell’opera autografa di Riccardo), così come impostato da Manieri-Elia, c’è un approccio abbastanza discutibile a nostro parere: l’anno inciso, il “1524”, da tale studioso è stato ritenuto dubbio, problematico, e infine sbagliato perché il periodo dell’attività artistica dello scultore messo in relazione con tutta una serie di opere (molte delle quali datate), attribuite dalla storiografia fino al 1982 [11], appariva eccessivamente lungo. Se, quindi, legittimo, era porsi il problema degli anni di realizzazione di quelle opere, sollevato da quello storico e da chi lo ha seguito su quella strada, singolare fu, ed è stato così fino ad oggi, la risposta al problema perché, infatti, Manieri-Elia, senza obiezioni, dubitò solo dell’anno inciso sul fusto di quella colonna otrantina anziché verificare che tutte le opere ascritte a Riccardo fino ad allora proprio da quest’artista fossero state effettivamente realizzate.
Dobbiamo ricordare, intanto, che in una relazione del 1670 [12] si riporta a proposito della cappella dei Martiri: «[…] quae tamen Anno demum MDXXIIII perfectionem habuit […]» ovvero “[…] la quale tuttavia nell’anno 1524 finalmente fu perfezionata […]».
Questo breve testo, scritto da Pompeo Gualtieri, lascia, quindi, significativamente intendere qualcosa di più a proposito della “prima” cappella innalzata -con l’intervento dei sovrani d’Aragona (di Napoli), subito dopo la riconquista della città- nella cattedrale (la quale aveva forse ancora i segni degli assedi della conquista turca prima e della successiva riconquista aragonese poi) [13].
Quella cappella, secondo quanto riporta il Gualtieri, «demum…perfectionem habuit» / “finalmente fu perfezionata”. E quel termine «demum» / “finalmente” riveste, più di tutto il resto, un’importanza notevole -per la storia della prima opera architettonica dedicata ai Martiri, a cominciare dal suo valore simbolico e non solo- perché lascia configurare l’intervento del 1524 come un completamento e probabilmente anche come un restauro (con l’addizione di parti nuove forse) più ancora che come una costruzione ex novo nel medesimo luogo.
Houben nel 2005 [14] a tal proposito sottolinea, legittimamente, che Gualtieri non specifica da dove tragga la notizia relativa al 1524. Tale non indicazione della fonte, però, dovrebbe porre in ogni caso in una condizione di ascolto e attenzione anziché di rifiuto a priori di quel dato cronologico.
Il medesimo completa il suo percorso d’indagine pensando in particolare a un «[…] falsificatore sei- o settecentesco […]» [15], autore delle due epigrafi, e più in generale:
«Ritengo infatti che la data del 1524, apportata su una delle colonne del ciborio cinquecentesco della Cappella dei Martiri di Otranto, sia un falso eseguito dopo il 1634 per produrre una prova non impugnabile dell’esistenza del culto dei Martiri -da tempo immemorabile-, vale a dire, secondo i termini fissati nel decreto di Urbano VIII del 1634, da più di cento anni prima della data del decreto stesso» [16].
Sempre Houben sostiene che l’altare reliquiario di Riccardo con le sue oramai celebri colonne non sarebbe esistito ancora nel 1531 e che la cappella descritta da Nicolas Loupvent [17], dedicata ai Martiri, sia la precedente ossia quella aragonese e non quella di Riccardo. Lo stesso studioso, inoltre, partendo da un dato -nella visita pastorale della cattedrale otrantina del 1538-40 «[…] il ciborio reliquiario non viene menzionato» [18]- deduce l’inesistenza, anche a tale data, dell’opera di quello scultore. E non solo, perché la presunta falsità dell’incisione con l’anno, secondo il suo ragionamento, consentirebbe di mettere in discussione anche l’autenticità dell’epigrafe contenente il nome dell’artista [19].
A tal proposito, fra i molti che si sono occupati dello stesso argomento, anche Monaco scrive:
«Tornando al ciborio, neppure nella visita pastorale del 1539, che è quindi contemporanea al primo processo, se ne fa menzione; pertanto, è chiaro che a quella data o il ciborio non era collocato nella cappella dedicata ai Martiri, oppure effettivamente non era stato realizzato» [20].
E in maniera ancora più esplicita il medesimo afferma:
«Le colonne furono una prova risolutiva nell’istruttoria avviata dalla S. Sede nel 1770-71, per l’accertamento del martirio subito dagli ottocento idruntini decapitati dai turchi nel 1480, che si concluse con la loro beatificazione. Chi scrive giustifica una proposta di esecuzione tra il 1539 e il 1556, su basi iconografiche e documentarie […]» [21].
Appare evidente che, sulla base di questi presupposti di falsità, tutta la vicenda del martirio vede mettere almeno in secondo piano il colore naturale del sacrificio a favore di un giallo che è prima di tutto indicativo di un mistero all’interno del quale sembra esservi il coinvolgimento, più o meno consapevole, anche di certa parte della storiografia moderna. Certo è, però, che in questo scenario il “mito/falsità” dà l’impressione di voler infrangere la densità storica del reale. Cominciamo quindi a entrare nel vivo della questione.
Per quanto riguarda i caratteri con cui sono scritti il nome dell’artista e l’anno, Houben li ritiene diversi da quelli utilizzati nelle altre epigrafi presenti su fusti e capitelli [22] ma così non è proprio alla luce di un confronto fra tutte quelle iscrizioni. I caratteri epigrafici appaiono, infatti, entro variazioni compatibili con i problemi esecutivi, sostanzialmente simili. Le “differenze”, o forse meglio, le anomalie sono, invece, imputabili, si vedrà qui di seguito, a quelli che qui definiremo come “segni occasionali”.
Non dà, poi, nessuna reale certezza dell’inesistenza [23] delle “colonne” il fatto che nella visita pastorale del 1538-40, quando cioè si descrive la cappella dei Martiri, esse non siano segnalate; e lo stesso vale per la mancata segnalazione di anno e nome dell’autore sia nella descrizione redatta nel 1670 da Gualtieri [24] sia nel processo di canonizzazione del 1755/56 [25]. Queste assenze, in effetti, che potrebbero avere le più diverse spiegazioni, inducono alla cautela in fase di analisi.
Riteniamo, pertanto, problematico quanto fa Houben, a questo proposito, e cioè partire da tali assenze per giungere a conclusioni estremamente significative come, ad esempio, la dichiarazione di falsità dei documenti epigrafici relativi ad anno e nome.
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L’analisi
Tutta l’articolata vicenda che abbiamo voluto riassumere a premessa di quanto seguirà ancora s’interseca, evidentemente, in un modo singolare con la figura di Riccardo.
L’importanza che questi riveste nell’ambito della storia artistica dell’Italia meridionale e pugliese, in particolare, rende necessario almeno un approfondimento che qui si farà, neanche a dirlo, limitatamente a quanto rimane della sua unica opera autografa pervenuta, i fusti e i capitelli delle colonne dell’altare, precedente l’attuale, che collocato nella cattedrale di Otranto (Le) era dedicato ai Martiri di questa città.
Fig. 1
Di tale artista, a dire il vero, da un punto di vista documentario, conviene ripeterlo, nulla di certo è noto in quanto alla sua formazione artistica e non solo.
Infantino lo ricorda leccese [26] e forse lo era almeno di adozione; la sua famiglia potrebbe avere avuto, però, origini anche campane [27], nell’ipotesi che si chiamasse “Ricciardo” (ma tale versione del cognome non sembrerebbe essere corretta, vedremo), così come fiamminghe [28], muovendoci in quest’ultimo caso, benché lievemente più tardo, sull’onda del cognome italianizzato.
Le “colonne” (in realtà quattro fusti e altrettanti capitelli) sono state qui classificate sulla base delle loro attuali posizioni, associando ognuna di queste ultime rispettivamente alle lettere A, B, C, D (in tale analisi saranno usate, pertanto, espressioni come ad esempio: ‘fusto in posizione A’, o più brevemente, ‘capitello in B’, e così via) a partire da quella più a sinistra posta a ridosso della scala che dalla navata destra della cattedrale idruntina conduce alla sottostante cripta (Fig. 1).
Focalizziamo l’attenzione sulla questione delle epigrafi con nome e anno prendendo in considerazione solo le pubblicazioni più recenti e autorevoli al riguardo.
Nell’Atlante del Barocco [29] il testo epigrafico inciso sulla colonna in A è riportato, integrandolo, come segue: «…OPUS GA[BRIELLIS] MA[GI]STRI / … … [RI]CCARDI / …LICINI». Questa medesima versione è ripetuta con testo uguale ma senza lacune anche in un’altra più recente e di certo ancora più prestigiosa circostanza editoriale come il Dizionario Biografico degli Italiani dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani” [30].
Tale trascrizione è però poco convincente [31]. Va subito precisato, infatti, che molte delle epigrafi presenti su quanto rimane delle quattro colonne originali, nel corso dei secoli, sono state oggetto dell’attenzione di ‘incisori occasionali’ che hanno aggiunto testi, oggi più o meno leggibili, oppure prodotto altri segni che impediscono spesso una lettura certa delle iscrizioni incise (a lettere capitali romane) perché a queste ultime si sovrappongono e/o innestano.
Quanto detto è accaduto anche all’epigrafe laterale sinistra del fusto oggi in posizione A dove è inciso quello che potrebbe essere (il condizionale in questa reductio ad absurdum è d’obbligo) il nome dell’autore delle quattro “colonne”, proprio quello protagonista della querelle riassunta in premessa a tale analisi.
Nell’ampia bibliografia dedicata a Riccardo, alla sua opera e a queste oggi incomplete colonne in particolare, manca, in effetti, un’analisi scientifica tanto semplice e scontata quanto determinante ovvero quella che preveda un rilievo del testo distinguendo la parte scritta a lettere capitali da quella ‘occasionale’ e, più in generale, da tutto il resto.
Anche nell’Atlante del Barocco [32] questo tipo d’indagine manca, così come nello studio di Houben [33].
In quest’analisi, si è, invece, proprio voluto isolare il testo a lettere capitali (testo principale) dagli altri segni (lettere e non solo) [34]; è da segnalare che, talvolta, quella occasionale è, in effetti, più propriamente una sovrascrittura che, cioè, ha cercato addirittura di modificare le lettere capitali.
Il nome e cognome dell’artista sono incisi all’interno di una tabula ansata [35] costituita da una parte centrale (specchio epigrafico) rettangolare circondata da una cornice [36].
La tabula è collocata a circa cm 156 dal piano superiore dell’attuale base [37]; il margine superiore è a circa cm 164 di altezza [38]. La larghezza esterna della tabula è pari a circa cm 14.8 [39]; l’altezza esterna [40] è pari a circa cm 8.2. Lo spazio interno, quello cioè destinato all’iscrizione, ha un’altezza pari a circa cm 5.5 e una larghezza, misurata sulla circonferenza, pari a circa cm 12.3. All’interno di questa tabula ansata (quella laterale a sinistra, fusto in A) su quattro righe il testo principale inciso è: «OPUS GA / B[…]LIS RI / CCARDI / LIC» [41] (Figg. 2, 3).
Fig. 2
Fig. 3
L’estensore dell’epigrafe, quindi, aveva plausibilmente predisposto anche in questa tabula, così come in altre presenti sui quattro fusti di colonna e capitelli, una serie di linee orizzontali incise su cui poi ha realizzato, ancora una volta, tramite l’incisione il testo principale.
La lettera «B» (visibile solo in alcune sue parti) del secondo rigo è pressoché allineata verticalmente con la «O» soprastante di «OPUS» e la sottostante prima «C» di «CCARDI»; nonostante lo scarto ridotto fra esse, si potrebbe ipotizzare (a dispetto di segni sovrapposti e cancellature) che ciascuna possa essere stata l’inizio di ogni riga di testo [42].
Irriconoscibili e solo desumibili le lettere «[RIE]» che, nella seconda riga, avrebbero composto la parte intermedia del nome «GABRIELIS» (è visibile meglio solo un’asta verticale).
L’altezza del testo nelle prime tre righe è la stessa; essa è pari a circa mm 8.5. L’interlinea in questo caso è pari a circa mm 6; solo fra la terza e la quarta riga (l’ultima), essa si riduce a circa mm 3. La diversa altezza, ben percepibile, del testo (quarta riga) «LIC» si riduce, invece, a poco meno di mm 7.
Le lettere «INI» appaiono realizzate in modo diverso rispetto alle altre della medesima quarta riga. In particolare le finali «NI» sono incise non rispettando le linee guida relative ai caratteri «LIC» che le precedono e con meno attenzione e qualità esecutiva rispetto a tutte le altre lettere capitali. La «I» fra «LIC» e «NI» mantiene l’allineamento delle prime tre lettere in modo meno approssimativo rispetto a quanto accade, invece, per la coppia finale che la segue (quella «I», in particolare, rispetta cioè la linea guida inferiore ma non quella superiore; in sostanza essa ha un’altezza minore rispetto alla medesima lettera che la precede). Formalmente, inoltre, la stessa «I» appare diversa dalle tre lettere componenti «LIC» (non si leggono, ad esempio, le svasature delle parti terminali).
Tracce di una coloritura scura sono visibili all’interno delle prime quattro lettere componenti «LICI».
Si segnala, inoltre, la presenza di un’incisione occasionale le cui lettere comporrebbero: «LECC(?)E» (Fig. 4).
Fig. 4
Nel caso di «LECC(?)E» l’incertezza (espressa qui con il punto interrogativo) è dovuta al fatto che nella seconda «C» appare un segno interpretabile come una «Y» ottenuta trasformando la seconda asta verticale della «N» di «NI» (quarta riga); non si può, inoltre, escludere, in considerazione della distanza esistente fra la seconda «C» di «LECC(?)E» e la «E» conclusiva, che si sia voluto ‘riusare’ la «I» finale di «NI».
Tutto ciò, quindi, potrebbe far leggere quell’incisione occasionale inclinata anche come «LECCIE» o «LECCYE» [43].
La seconda «C» di «LECC(?)E» spiega, inoltre, il segno curvilineo angolare fra le parti lineari (verticale e orizzontali) usate per formare la soprastante «D» finale (terzo rigo) del cognome dell’artista.
Nell’ultima riga la storiografia fino ad oggi ha letto, così come già i periti del 1771, un’unica parola [44] ovvero «LICINI» intendendola come variante riferibile all’aggettivo lyciensis indicativo della provenienza dell’artista [45]. In effetti, però, si deve specificare meglio, solo le prime tre lettere «LIC» sono accumunate dalle stesse caratteristiche fisiche riscontrabili nei testi capitali di questa e delle altre epigrafi [46], le lettere «I» e soprattutto «NI», come qui già rilevato, appaiono invece realizzate in modo diverso perché più occasionale.
Solo la presenza di una tinta nera nella «I» (e forse un altro dettaglio che vedremo in seguito) compresa fra «LIC» e il successivo «NI» indurrebbe a ritenere quella «I» come componente di «LICI»; quel colore scuro è anche all’interno di altri testi incisi su fusti e capitelli. Allo stato attuale delle ricerche, inoltre, si deve precisare che la paternità di Riccardo non è nota e quindi non esistono ragioni per affermare o negare, anche dimenticando le diverse caratteristiche fisiche che contraddistinguono le lettere finali «INI» o «NI», che la parola «LICINI» sia da intendersi come il genitivo “di Licinio” ovvero “Gabriele Riccardo (figlio) di Licinio”. In ogni caso, è utile ripeterlo, «LIC», «I» e «NI» appaiono come elementi in generale diversi tra loro.
L’alternativa che possa essere o «LIC» o «LICI», non è un dettaglio di secondaria importanza visto che ‘l’autografo’ sarebbe, ad oggi, l’unico documento direttamente legato a Riccardo che, seppure in via ipotetica per quanto appena detto, potrebbe indicarne almeno la provenienza geografica.
Sulla base dei dati a disposizione, non si ha quindi, a rigore, alcuna certezza di cosa l’estensore del testo «LIC» volesse dire con queste tre lettere (inizio di una parola forse incompiuta quindi), neanche in particolare se volesse indicare la città di origine (di Riccardo). Per completezza si deve ricordare, una volta di più, che il termine «LICINI» viene, però, riportato già nella perizia settecentesca (1771) contenuta nel processo di beatificazione conservato presso l’Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Otranto [47]; tale fonte consente, quindi, di datare almeno questa incisione occasionale.
Le tre lettere che compongono «LIC» apparirebbero, inoltre, per via della loro diversità dimensionale in altezza rispetto ai caratteri che le precedono, come un elemento forse addirittura non previsto inizialmente nell’economia degli spazi di questa epigrafe.
Ciò è ancora più evidente se si considera anche un’altra tabula ansata che, contenendo inciso su tre righe il millesimo «M / CCCCC / XXIIII» ovvero “1524”, potrebbe essere più direttamente collegabile a quella con il nome (Figg. 5, 6).
Fig. 5
Fig. 6
Questa seconda tabula è quella laterale destra sul fusto oggi in posizione C. Per brevità qui si limita a segnalare che, in quanto a localizzazione sui fusti, dimensioni e forma, queste due tabulae ansatae (nome e anno) sono pressoché uguali.
E lo sono, significativamente, anche per due altri aspetti: l’uno, quello dei testi capitali incisi (forma, dimensioni), l’altro, quello della distribuzione dei caratteri all’interno dello spazio centrale [48].
Nelle due epigrafi, ultima riga in basso di ognuna, la linea guida inferiore (parzialmente visibile), su cui poggia il testo, dista dal margine inferiore del rettangolo interno circa cm 1.3 [49]; e così pure, in entrambi i casi, pressoché identica (circa mm 4) è la distanza che intercorre fra la linea guida superiore del testo nel primo rigo in alto e il margine superiore del rettangolo interno.
Il ripetersi anche di questa regolarità distributiva dei testi è apparso incompressibile fino ad oggi a tutta la storiografia. E’, invece, proprio questo dettaglio che obbliga a riguardare, e in modo diverso, a quel «LIC» il quale è caratterizzato, come già detto, da un’altezza minore rispetto alle tre righe che lo precedono nella medesima epigrafe (fusto in posizione A, tabula laterale sinistra).
Nell’ipotesi che «LIC» volesse indicare il luogo d’origine dell’artefice si potrebbe anche pensare che tale precisazione geografica si fosse avvertita come necessaria da parte dell’estensore del testo perché forse ancora giovane [50] era l’artista e forse ancora poco noto all’epoca della realizzazione delle quattro “colonne” e relativa cappella.
C’è in più un altro aspetto interessante che emerge dall’analisi dimensionale dei testi di queste due iscrizioni e soprattutto dalla prima, quella con il nome.
Su tutta la superfice interna delle altre epigrafi quelle cioè dei capitelli (anch’esse contenute in tabulae ansatae, oggi mancanti di alcune loro parti, ma disposte verticalmente) e dei fusti (in quest’ultimo caso alcune sono diverse per forma, dimensioni, orientamento ma tutte risultano collocate sui prospetti principali), i testi appaiono distribuiti in modo sostanzialmente uniforme lasciando supporre che essi siano stati evidentemente pensati per essere destinati a una visione e lettura frontali.
Tanto nella tabula con il nome quanto in quella con il millesimo, i testi incisi sono, invece, eccentrici rispetto al rettangolo che li contiene. Riteniamo che ciò avvenga in modo non casuale.
Le incisioni capitali, all’interno di queste epigrafi, sono spostate verso il fronte principale dei relativi fusti e così facendo, anche in questo caso, diventano meglio visibili per un ipotetico osservatore frontale.
Nell’epigrafe con il nome, le lettere iniziali delle prime tre righe di testo [51] si discostano dal margine verticale interno sinistro di una distanza (misurata sulla circonferenza) pari a circa cm 5.5; i capi delle tre righe, ricordiamolo, sono pressoché allineati verticalmente come qui già evidenziato.
In questa soluzione distributiva c’è evidentemente tutto l’interesse dell’estensore dei testi nei confronti delle leggi della percezione (o meglio, soprattutto della prospettiva) ed è la stessa attenzione che, nella realizzazione delle singole “colonne” (fusti e capitelli), deve avere guidato l’artista nel definire e rifinire certe parti della scultura più di altre (Figg. 11-35).
Fra quei testi epigrafici e la parte scolpita sembra esservi, quindi, una continuità di pensiero. Tale rapporto potrebbe essere stato, per il caso di quelle epigrafi con nome e anno, diretto o anche mediato attraverso il disegno di progetto (in sostanza l’esecutore del testo potrebbe essersi attenuto a un disegno fornitogli dall’artista o almeno dal committente).
In sintesi: non possiamo escludere che almeno quei testi che qui interessano più di tutti siano stati incisi anche da qualcun altro diverso da Riccardo; chi l’ha fatto, però, ha proceduto in accordo con il progetto o perché ne era l’autore o perché, presente o meno l’autore, alle direttive di quest’ultimo si è attenuto. C’è da chiedersi, quindi, se il falsificatore «sei-settecentesco» ipotizzato da Houben si sia spinto davvero fino a questo punto di comprensione, alla filigrana verrebbe da dire, dell’opera, fermo restando che il suo obiettivo principale sarebbe stato soddisfatto con l’incisione del solo anno. Verrebbe, inoltre, da chiedersi perché la falsificazione avrebbe dovuto riguardare anche il nome dello scultore. Proporre nell’incisione, “falsificando” il nominativo è, infatti, un dato irrilevante rispetto alla data perché quest’ultima, invece, è la fonte determinante per dimostrare, rispetto all’anno del processo del 1771, che il culto dei Martiri esisteva ab immemorabili così come richiesto dalle regole fissate nel decreto di Urbano VIII del 1634 valide per questo e altri casi simili.
Tutta la singolarità distributiva di quei testi, cosa non inconsueta quando c’è padronanza del fare artistico, avviene semplicemente perché alcune parti, più di altre, si sapeva sarebbero state alla portata dell’occhio dell’osservatore.
Verrebbe da pensare, quindi, che il posizionamento anomalo, eccentrico geometricamente, di quei testi faccia parte integrante, unitamente ad altri dettagli rilevabili sulle colonne (fusti e capitelli), del progetto e sia quindi in modo chiaro (anche solo tramite il disegno) riferibile all’autore ricordato nell’epigrafe, Riccardo supponiamo.
Nella tabula con il nome, inoltre, l’inserimento delle tre lettere «LIC» sembra avvenire nel rispetto di questa stessa logica compositiva, ancora una volta e, non è da escludere, con una sfumatura in più.
E forse proprio per tutte le ragioni appena dette, le lettere «LIC» sono ulteriormente spostate (di circa cm 2) verso la parte frontale del fusto rispetto ai capi delle tre righe precedenti e superiori [52]. Queste ultime lettere sono, inoltre, caratterizzate da un’altezza minore rispetto alle altre, per necessità si è detto, in quanto plausibilmente non previste in un primo momento, quando cioè furono incise le altre parti testuali di tale epigrafe.
A proposito soprattutto delle prime tre righe bisogna ricordare ancora una volta che esse sono collocate all’interno di un’epigrafe posta a non meno di circa cm 156 dal piano di calpestio.
Sempre alla luce della legge prospettica cui si accennava, potrebbe spiegarsi anche il fatto che, nelle epigrafi dette (l’una con il nome e l’altra con il millesimo), il testo (quello cioè prima del probabile ‘ripensamento’ che ha comportato l’aggiunta di «LIC») non è equamente distribuito anche nel senso dell’altezza: le terze righe in basso dei singoli testi, lo si è già rilevato, lasciano infatti nella parte inferiore di ognuna delle due (tabulae), uno spazio vuoto la cui altezza, in entrambi i casi, è pari a circa cm 1.3. Il testo (quello delle prime tre righe) è quindi sollevato probabilmente perché collocato al di sopra di quella che era considerata un’altezza massima per l’osservazione e lettura frontale. Non si può escludere che da questo dettaglio si possano ricavare indicazioni anche sulla reale statura dello stesso esecutore dei testi medesimi, forse proprio Riccardo.
Non abbiamo notizie del cosiddetto “attacco a terra” delle colonne, se cioè esse fossero nascenti oppure, cosa più probabile, avessero solo basi modanate (forse con un plinto) e quanto queste ultime fossero alte (possiamo ipotizzare circa almeno cm 10); non sappiamo quindi, a che altezza quelle epigrafi con nome e anno fossero realmente collocate rispetto al loro piano di appoggio o meglio di calpestio coincidente, plausibilmente, con quella della mensa dell’altare il quale, come noto dal Gualtieri, si sollevava di alcuni gradini dal pavimento della navata laterale destra della cattedrale.
Queste anomalie prospettiche e distributive del contenuto letterale acquistano un ulteriore valore se si considera che, come già ricordato, in tutte le altre epigrafi sul fronte, il testo si distribuisce, invece, cercando di rispettare il più possibile l’asse di simmetria verticale dello spazio interno occupando quest’ultimo in modo abbastanza omogeneo.
Per completezza si ricorda in più che sul fusto in posizione C, nell’epigrafe laterale sinistra (omologa di quella sul fusto in A con il nome e, a sua volta, simmetrica dell’altra sul fusto in C, laterale destra, con l’anno), vi è un testo biblico incompleto su due righe il cui incipit è «VAE GENTI INS / UR[GENTI SUPER GENUS MEUM: DOMINUS ENIM OMNIPOTENS VINDICABIT IN EIS; IN DIE JUDICII VISITABIT ILLOS]» (Giuditta 16:20) (Fig. 7); anche in questo caso, come nei precedenti segnalati, le prime lettere hanno un inizio spostato verso destra (il capo del testo si colloca, infatti, a circa cm 3.9 dal filo verticale interno sinistro della cornice) o meglio verso il fronte principale del fusto. Quest’ultima constatazione consente di escludere che l’analogo spostamento in avanti del testo, per i casi delle due epigrafi l’una con il millesimo e soprattutto l’altra con il nome, fosse l’espressione di una ricerca di visibilità solo personale da parte dell’artista.
Fig. 7
Prima di passare ad altre considerazioni riguardanti i testi occasionali presenti sull’epigrafe con il nome sembra opportuno segnalare quanto si rileva a proposito delle tre lettere componenti «LIC».
Esse, come evidenziato, sono collocate a circa cm 2 dal filo esterno verticale composto dalle lettere iniziali delle tre righe superiori ed eccentriche rispetto al margine interno sinistro della tabula. Se considerassimo, invece, «LICI», la cui ampiezza è pari a circa cm 2.2, l’ultima «I» (lievemente diversa fisicamente, come qui già evidenziato, da quella che la precede all’interno di «LIC» ma come queste ultime contenente tracce di una coloritura scura) dista circa cm 2.7 dal margine destro interno del cartiglio e circa cm 2 dal filo verticale passante per la «I», ultima lettera della parte finale del cognome in latino «CCARDI» collocata nel terzo rigo. La parte letterale dell’ultima riga in basso ha un’ampiezza pari a un terzo di quella che la precede (Fig. 8); il quarto rigo è, quindi, suddiviso in tre parti di uguale ampiezza circa (la prima, a sinistra, e l’ultima, a destra, sono vuote) e quella centrale è occupata, invece, proprio da quel «LICI» con cui si chiude, di fatto, la composizione di questa epigrafe. A ben vedere, tale soluzione scaturisce dal fatto che il testo con il nome è collocato sull’epigrafe a sinistra di quel fusto (in A). Quella soluzione compositiva, infatti, non sarebbe stata necessaria se il testo con il nome fosse stato collocato, invece, sull’epigrafe a destra dello stesso fusto (in posizione A), replicando quanto accade per l’epigrafe con il millesimo (fusto in posizione C); e tutto ciò, naturalmente, perché la scrittura latina usata allora come oggi si legge da sinistra verso destra. In fase di progettazione architettonica, evidentemente, ha prevalso il voler rispettare la simmetria verticale dell’opera nella sua interezza secondo cui all’epigrafe con il millesimo dovesse corrispondere quella con il nome.
Fig. 8
All’altezza del primo rigo dell’epigrafe con il nome, immediatamente a sinistra di «OPUS» e a quest’ultima in parte sovrapposti, si scorgono alcuni segni occasionali che in sequenza consentirebbero di leggere [L A T O R R E] (Fig. 9).
Fig. 9
Nella parte finale del secondo rigo, prima delle lettere «IS», si rileva quella che potrebbe essere la terzultima lettera, la «[L]», del nome dell’artista [53]; a seguire, poco più in alto della base dell’asta di questa «[L]», parte un segno inciso simile a una «[N]»; si intravedono poi altre incisioni occasionali non riconducibili in modo certo a lettere.
Tre lunghi segni lievemente arcuati, infine, pressoché paralleli a quell’insieme, già qui analizzato, che compone «LECC(?)E» tagliano: il primo, la riga in basso con una parte del cognome; il secondo, la parte iniziale del nome; l’ultimo in alto è nell’interlinea fra prima e seconda riga di testo.
Alcuni dei tratti occasionali nelle epigrafi dei fusti potrebbero anche essere collegabili al fatto che il Vescovo di Lecce, mons. Alfonso Sozy Carafa, autorizzò l’eliminazione della doratura (oggi essa è ancora riscontrabile solo in minimi frammenti) che caratterizzava quest’opera idruntina di Riccardo; non possiamo escludere a priori che quell’asportazione abbia interessato anche altre porzioni, più o meno estese, della superficie di capitelli e fusti oltre a quello, ristretto, indicato nella nota perizia settecentesca [54].
Le quattro “colonne”, o meglio ciò che di esse rimaneva, furono analizzate, infatti, da tecnici la cui relazione conclusiva è contenuta nel processo di beatificazione redatto nel 1771 [55].
Altro aspetto da ricordare è che il tratto verticale occasionale della «L» iniziale di «LECC(?)E» (ricordiamo che tale successione di segni è posta di traverso fra la terza e la quarta riga del fusto in posizione A), si inserisce fra la seconda «C» e la «A» di «CCARDI»; proprio forse per tale ragione alcuni studiosi hanno letto il cognome dell’artista come «RI / CCIARDI».
Non esistono, inoltre, allo stato attuale delle conoscenze, evidenze tali da dimostrare con certezza che il cognome dell’artista – così come inciso sul fusto in A ovvero «RICCARDI» (il testo è in latino e il caso del nome «GAB[RIE]LIS» è il genitivo) – sia stato scritto in modo indeclinato; nei documenti più direttamente legati allo scultore, però, il cognome e il nome appaiono declinati assieme (accordati) a seconda dei singoli casi richiesti dal costrutto della frase in cui essi sono inseriti.
Quanto contenuto nel documento del 31 luglio 1572 [56] dove si cita (c. 1, righe: 4 / 26 – 5 / 26): «[…] Sibinam / de magistro Grabrieli Lizardo […]» offre l’opportunità di ricordare quanto segue: la «L» e la «Z» del cognome «Lizardo» si spiegherebbero rispettivamente: la prima con il fenomeno del rotacismo come già segnalato da Houben [57], l’altra con l’uso, riscontrabile, ad esempio, nella seconda metà del Cinquecento nel capoluogo salentino, di sostituire la doppia «CC» con la «Z» così come accadeva per il termine ‘Lecce’ che poteva diventare «Leze».
Conclusioni
L’epigrafe con il nome potrebbe essere stata in una prima stesura, quella principale, per tutto quanto appena segnalato: «OPUS GA / B[…]LIS RI / CCARDI / LIC» ovvero, integrando, «OPUS GA / B[RIE]LIS RI / CCARDI / LIC», che tradotto diventerebbe: “Opera di Ga / briele Riccardo / …”.
Per quanto riguarda l’ultima parola, se accettiamo la lezione «LIC», potrebbe essere l’abbreviazione di Liciensis (leccese); se accettiamo la lezione «LICI», essa potrebbe essere traducibile come “di Lecce”, anche se bisogna ricordare che trattandosi del genitivo di Licium dovrebbe terminare con una doppia i.
La distribuzione “prospettica” in questa epigrafe, così come in quella con il millesimo e l’altra con l’incipit su due righe «VAE GENTI INS / UR[GENTI SUPER GENUS MEUM: DOMINUS ENIM OMNIPOTENS VINDICABIT IN EIS; IN DIE JUDICII VISITABIT ILLOS]» (Giuditta 16:20), rivela una legge aggregativa coerente con l’apparato scultoreo [58].
Chiunque abbia apposto millesimo e nominativo, nei modi che qui abbiamo descritto, riteniamo lo abbia fatto o sulla base di un disegno di progetto redatto dall’artista oppure perché l’esecutore era proprio l’artefice. Il rapporto fra quest’ultimo e la distribuzione dei testi appare, in ogni caso, diretto. Per le ragioni esposte, le due epigrafi con nome e anno, quindi, non sarebbero un falso sei-settecentesco come sostenuto da Houben e altri studiosi.
D’altro canto anche un’analisi iconografica del medaglione raffigurante re Carlo, giovane, imberbe (molto utile è pure l’acconciatura) induce a ritenere compatibile con gli anni 1520-30 la realizzazione del fusto – e con esso, per omogeneità, di tutti gli altri elementi delle quattro “colonne”- su cui è l’effigie di quel sovrano; non esistono, inoltre, al momento indizi tali da far ritenere che l’artefice non si sia attenuto a un’immagine del regnante coeva alla realizzazione di quelle quattro colonne.
Chiarita la questione della non falsità dell’epigrafe con il nome, prima di concludere, logica vorrebbe che il passaggio immediatamente successivo fosse quello di eseguire una valutazione stilistica fra quanto è scolpito sulle “colonne firmate” e tutte le opere che la “tradizione letteraria” (a breve si spiegherà meglio tale espressione) ricorda eseguite da Riccardo. Come segnalato fin dall’inizio, però, si deve ricordare che non esistono, esclusa naturalmente quella che qui si sta analizzando, opere autografe o riconducibili per fonti documentarie dirette a quello scultore. Tralasciandone altre più recentemente assegnate, ci soffermiamo solo quelle riferite allo scultore, come si diceva, per “tradizione letteraria” ossia perché ricordate dall’Infantino [59] e da Ammirato [60]; esse sono: il David che scrive, oggi presso il museo “Sigismondo Castromediano” di Lecce; il san Nicola di Bari, nella chiesa leccese dei Santi Niccolò e Cataldo; il san Giuseppe, la Madonna, il bue, l’asino, le statue sommitali e le due laterali che sono nell’altare detto anche del presepe nella cattedrale di Lecce [61]. Della chiesa leccese, sempre ricordata dall’Infantino, di Santa Croce, solo alcuni semicapitelli (e quarti di capitelli) nelle navate laterali potrebbero appartenergli in merito all’esecuzione. Le opere ora segnalate dimostrano, là dove è possibile trovare gli elementi per il confronto stilistico, una sostanziale coerenza formale non solo tra loro ma anche con quanto è sulle “colonne” otrantine il che indurrebbe a confermare che l’autore di tutte le sculture lapidee appena ricordate, tanto più perché non credibile l’ipotesi di falsità avanzata da Houben, sia proprio quel Gabriele Riccardo indicato nell’epigrafe della “colonna” otrantina.
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Verrebbe da chiudere qui quest’analisi, ma faremmo un torto al principio di completezza, se non lasciassimo coagulare un minimo di quella verità che si nasconde dietro parole, in queste pagine utilizzate, come “mito” e “fenomeno carsico”.
In questi anni c’è stato il tentativo di delegittimare per via di una presunta falsità tutte quelle fonti che facessero riferimento al martirio. Il Laggetto è uno di questi e forse l’ultimo in ordine di tempo. Houben [62] lo ritiene un falso, anzi il plagio di un’opera di Francisco de Araujo pubblicata nel 1631. Il valore della cronaca del Laggetto è evidentemente legato non solo al fatto che essa sarebbe stata redatta nel 1537, e cioè solo circa sessanta anni dopo l’eccidio, e sulla base di una testimonianza diretta ma soprattutto perché in quest’opera si fa menzione del martirio inteso come testimonianza di fede.
In realtà, le conclusioni di Houben in merito al plagio sono dirette non tanto al Laggetto in generale; il vero obiettivo sembra essere proprio quello di minare la notizia stessa di martirio.
Di fatto, però, ammesso pure che Houben abbia ragione, il de Araujo dichiara nel prologo di attingere a informazioni contenute in archivi. Laggetto o meno, quindi, è possibile che esistessero documenti relativi al martirio. Houben, con l’idea di quel plagio, non risolve così il problema e forse addirittura lo complica. Il dubbio rimane, infatti, ed è comunque tale da non obbligarci a imboccare la causa della negazione certa di quel martirio.
Una parte consistente della storiografia ha dimostrato, soprattutto in questi ultimi tempi, una sostanziale incredulità rispetto all’idea di martirio associata agli Ottocento. Lo abbiamo visto ampiamente. A dire il vero si tratta di una posizione metodologicamente legittima visto che nella documentazione storica fino ad oggi considerata non sembrano essere stati segnalati documenti che attestino in modo inoppugnabile che quegli Ottocento trucidati dopo la conquista turca della città non abbiano espressamente abiurato alla fede cristiana. Mancano i documenti, manca quella testimonianza nella quale l’invasore faccia quella domanda esplicita al condannato invitandolo, per aver salva la sua vita, a rinnegare Cristo.
Da questa assenza documentaria alcuni studiosi fanno discendere anche quella del martirio e con esso la santità stessa di quelle ottocento vittime. Ciò che colpisce nel ragionamento sotteso nelle affermazioni che portano a negare quell’estremo atto di fede è proprio il rapporto diretto (di causa-effetto) fra assenza di documenti e realtà del martirio. La storia della scienza moderna ha insegnato, però, che un’esistente può percepirsi in modo anche indiretto valutando gli effetti che esso produce nella realtà circostante. E allora, ritornando a una dimensione più storica, c’è da chiedersi se dobbiamo davvero pensare che il martirio, in questo caso, non sia avvenuto solo perché non esista il documento che lo attesti in modo diretto così come noi lo vorremmo in una sorta di proiezione indietro nel tempo delle nostre esigenze di studiosi odierni. Quanti fatti storici conosciamo senza che siano attestati da un documento e quanti ancora, pur essendo avvenuti, non sono supportati da documenti solo perché questi ultimi sono andati dispersi o distrutti?
La sola assenza dei documenti, quindi, non può indurre alla negazione del martirio.
C’è, poi, un altro lato della vicenda otrantina che appare in filigrana ed è tanto singolare quanto inesplorato. In tutti gli studi finora presentati manca in realtà un aspetto, anzi un punto di vista particolare: quello della religiosità dell’invasore, del vincitore, del mussulmano. Non abbiamo ragioni particolari per dubitare che chi era a capo della spedizione turca non sia stato un buon mussulmano ovvero che non si sia attenuto al Corano quando si trattò di capire cosa fare degli Ottocento. Il Corano ˂https://www.islamawakened.com/quran/47/4/˃ (31 luglio 2018) recita (47:4):
«Quindi, quando incontrate i miscredenti in battaglia, colpiteli al collo, fino a quando non li avrete completamente sottomessi. Stringeteli con fermezza, ma dopo lasciateli liberi o come atto di carità o in seguito al pagamento di un riscatto, fino a quando la guerra non sia terminata. Questo ti è comandato. Però, se Dio avesse voluto, Egli avrebbe potuto sconfiggerli da solo, ma vi ha permesso di combattere per mettere alla prova alcuni di voi per mezzo degli altri. Però, coloro che vengono uccisi sulla Via di Dio, Egli non lascerà mai che le loro opere vadano perdute».
E, in effetti, non pochi furono gli otrantini per i quali si pagò un riscatto in quegli anni. La domanda, quindi, del perché dell’eccidio va riproposta alla luce proprio di questi e altri versi del Corano. Perché, quindi, quegli Ottocento furono trucidati se esisteva almeno una alternativa come ad esempio quella del rilascio (attraverso il riscatto oppure per atto di carità)?
fig. 10-35
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Note
[1] gualtieri p., Pompei Gualtierii de reliquiis martyrum hudruntinorum hierotopochronics enarratio in capano f. a., Memorie alla posterita delli gloriosi e costanti confessori di Giesu Cristo che patirono martirio nella citta d’Otranto l’anno 1480, Lecce, appresso Pietro Micheli, 1670, pp. 99-104: 102.
[2] monaco a. m., La ‘Gerusalemme Celeste’ di Otranto, Galatina, Congedo, 2004 dove il sottotitolo riportato nel frontespizio recita: «Il mito degli Ottocento Martiri nelle sue riconfigurazioni memoriali»; houben h. (a cura di), La conquista turca di Otranto (1480) tra storia e mito. Atti del convegno internazionale di studio, (Otranto-Muro Leccese, 28-31 marzo 2007), 2 voll., Galatina, Congedo, 2008; vallone g., Mito e verità di Stefano Agricoli Arcivescovo e martire di Otranto (1480), in “Archivium Historiae Pontificae”, vol. 29 (1991), pp. 281-310, scaricabile presso il seguente link: ˂https://dokumen.tips/download/link/mito-e-verita-di-stefano-agricoli-arcivescovo-e-martire-di-otranto-1480˃ (22 luglio 2018).
[3] Mito, in Enciclopedia Treccani, ˂http://www.treccani.it/vocabolario/mito/˃ (5 luglio 2018)
[4] monaco a. m., Riccardi Gabriele, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 87, 2016, pp. 161–164:161; ˂http://www.treccani.it/enciclopedia/gabriele-riccardi_(Dizionario-Biografico)/˃ (6 luglio 2018)
[5] houben h., Gabriele Licciardo (Riccardi) una figura enigmatica del Barocco leccese, in “Kronos”, 2005, n. 9, pp. 167–178: 169; 171.
[6] Supra nt. 5.
[7] manieri elia m., Architettura Barocca, in La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano, Electa, 1982, pp. 32 – 154: 58. sullo stesso argomento: Idem, Barocco leccese, Milano, Electa, 1996, pp. 23-26, p. 66, nt. 16.
[8] cazzato m., La prima attività di Gabriele Riccardi: le colonne dell’altare dei martiri nella Cattedrale di Otranto (1524), in “Sallentum”, n. 1-2-3 (gennaio-dicembre 1989), pp. 47-70: 56.
[9] houben h., Gabriele Licciardo…, op. cit., p. 175, nota 8.
[10] monaco a. m., La ‘Gerusalemme Celeste’ di Otranto…, op. cit., pp. 43-44.
[11] Supra nt. 7.
[12] gualtieri p., Op. cit., pp. 99-104: 102.
[13] Sullo stato di devastazione della cattedrale può essere utile riportare un brano a dimostrazione del fatto che la riconquista aragonese della città fu perseguita anche a costo di danneggiare ulteriormente quell’edificio:
«Ebbe anco avviso il Duca che l’Agà di detti Turchi, qual pure chiamano Bassà, faceva orazione ogni giorno in una Cappella, quale sta dentro detta Chiesa all’ala del Cortiglio e guarda detta Cappella verso Oriente che ancora v’è, là si serrava con un panno d’avanti e li Turchi stavano in detta ala sopra tavole distese in terra, nella qual Cappella orava detto Bassà; deliberò per questo il Duca ancora di fare ammazzare detto Agà e così tenendo al campo alcuni Cittadini scampati dal muro, dai quali si faceva informare del sito e dell’aspetto della Chiesa e della Cappella, nell’ora che sapevano esservi detto Agà, e fra l’altri tirò uno che mancò poco che non v’avesse colpito quello, che non gannò manco di mezzo passo sinistro, poiché entrando la palla per donde la cortina di detta Chiesa era battuta, diede sopra l’arco della porta che va a detto Cortiglio che fino a ieri stette così rotto, né mancò niente che non avesse ammazzato l’Agà, qual dì quell’ora in poi non orò più in quella, nemmeno li Turchi vi stettero»
in laggetto g. m., Historia della Guerra d’Otranto del 1480, pp. 65-66; Galatina, Mariano, II, 1940.
La zona della cattedrale utilizzata come moschea potrebbe corrispondere a quella parte della navata destra delimitata anteriormente, ancora oggi, dall’arco trasversale oltre il quale è il “transetto” destro.
A proposito del testo di Laggetto va segnalato che (houben h., a cura di, La conquista turca di Otranto (1480)…op. cit., vol. II, pp. 5-20. 11-13, schema a p. 13), contrariamente a quanto sostenuto fino a qualche tempo fa dalla storiografia, secondo Houben, non è un’opera originale ma addirittura il plagio (Idem, p. 9) del volume composto da Francisco de Araujo (de araujo f., Historia de los martires de la ciudad de Otrento Reyno de Napoles, por la presa que della hizo… en nombre de Mahometo Otomano emperador de Costantinopla, el año de 1480 y su recuperacion por Fernando 1. de Aragon … Compuesta por … D. Francisco de Araujo capellan major, … este año de 1631; Napoli, per Egidio Longo, 1631.
Una copia digitalizzata è scaricabile al seguente link: ˂https://books.google.it/books?vid=IBNN:BNVA1001544696&redir_esc=y˃ (16 luglio 2018).
Houben ritiene di dimostrare il plagio mettendo a confronto i testi dei due autori, quello cinquecentesco di Laggetto e quello del 1631 di de Araujo. Così facendo, però, egli evidenzia sicuramente solo il rapporto fra i due testi; non è convincente, invece, quando deduce, sulla base di quella dimostrazione fondata su quella vicinanza, che il primo abbia copiato dal secondo. In effetti, potrebbe essere anche il contrario alla luce della cronologia di autori e opere. Sempre Houben (houben h., a cura di, La conquista turca di Otranto (1480)…op. cit., vol. II, p. 11) ritiene prova del plagio anche una serie di errori (ne segnala tre) compiuti dal Laggetto rispetto alla versione di de Araujo:
«[…] il Laggetto ha frainteso il testo di de Araujo, come quando Andrea Doria diventa ˂il Duca d’Oria˃, e i toponimi greci Coroni e Morea diventano Cormi e la Marca».
Anche questi ultimi elementi appaiono poco convincenti per dimostrare il plagio poc’anzi ricordato.
A proposito della cappella, de Araujo, e così pure il Laggetto, scrive:
«[…] el Baja con otros sus sequazes cadadia hazia oracion en una capilla, que esta dentro de la Yglesia ala parte dela puerticilla, y patio, donde fue degollado el Arçobispo […]»
e poi ancora:
«[…] entrando por el lienço de la muralla derrocata de la puerta dela Yglesia fue a dar sobre el arco de la dicha capilla […]»
(de araujo f., Op. cit., rispettivamente pp. 70-71).
[14] houben h., Gabriele Licciardo…, op. cit., p. 170.
[15] idem, p. 171.
[16] idem, p. 169.
[17] ibidem.
[18] idem, p. 170; p. 176, nota 16 (infra nt. 20).
[19] idem, p. 171, dove si legge: «Accertata la probabile falsità dell’epigrafe con la data 1524, si può mettere anche in discussione l’autenticità dell’epigrafe recante il nome dell’artista, anch’essa ˂scoperta˃ nel 1770, la quale si differenzia dalle scritture sugli altri cartigli per la sua fattura grafica mediocre».
[20] monaco a. m., La ‘Gerusalemme Celeste’…, op. cit., p. 44.
[21] idem, Riccardi Gabriele, op. cit. p. 161.
[22] supra nt. 19.
[23] houben h., Gabriele Licciardo…, op. cit., p. 170.
[24] Idem , p. 171.
[25] ibidem.
[26] infantino g. c., Lecce Sacra, De Marco M. (a cura di), Gallipoli, Nuovi Orizzonti Oggi, 1988, pp.: 31 (citato come «[…] Beli Licciardo […]» ma senza specificare la città d’origine), 230 (indicato come «[…] Beli Licciardo Leccese […]»), 344 (indicato come «[…] Beli Licciardo eccellente scultore di Lecce […]»), 382 (indicato come «[…] Beli Licciardo Leccese […]»), 401 (citato come «[…] Beli Licciardi […]» ma senza indicare il luogo d’origine).
[27] cosi g., Notai leccesi del ‘500, Lecce, Arti Grafiche Marino, 1999, p. 86, scheda 137; dove si segnala un «Giovanni Andrea Ricciardo […] de Cava di Maiuri». Nelle poche fonti oggi note riguardanti Riccardo, il cognome dello scultore è ricordato anche come «Ricciardo».
Per un’analisi più dettagliata sulle varianti cognominali si rinvia a: houben h., Gabriele Licciardo (Riccardi)…op. cit., pp. 167–178. Andrebbe, però, sottolineato necessariamente che l’autografo inciso su una delle colonne di Otranto è l’unico ‘documento’ oggi noto che lo riguardi in modo più diretto. Tutte le altre fonti conosciute che è stato possibile consultare e verificare, sono di fatto indirette; in quelle notarili, ad esempio, l’artista non compare né come testimone né come attore del rogito. In uno studio storico oltre che specificare la natura delle fonti (dirette e indirette) bisognerebbe delle stesse ricordarne anche le modalità esecutive.
Ad esempio, non si può ignorare che le informazioni contenute in un atto notarile, in fase di redazione dello stesso, erano veicolate prima di tutto attraverso la voce (non sempre poi le parti chiamate in causa nel rogito sapevano leggere e scrivere). Queste considerazioni tecniche, non adeguatamente considerate negli studi sino ad ora prodotti su Riccardo, potrebbero spiegare le varianti grafiche relative al cognome dell’artista. Chiarito ciò, è plausibile in conseguenza affermare che l’autografo sulle colonne idruntine è fra tutte le fonti quella che con più probabilità fornisce le indicazioni e la forma grafica più precisa di nome e cognome dell’artista sempre che sia dimostrato che quella ‘firma’ sia stata apposta proprio da Riccardo e non da altri. La necessità dell’analisi di dettaglio dell’epigrafe con il nome condotta in queste pagine scaturisce proprio dal presupposto logico che un “autografo” possa essere stato prodotto anche da terzi. Come fonti più direttamente legate a Riccardo, subito dopo l’autografo, si segnalano tre atti notarili (grasso f. a., Gabriele Riccardo, scultore ed architetto, in “L’Ora del Salento”, n. s., 25 dicembre 2010, p. 12; i documenti sono in: ACALe, Archivio Capitolare, Mazzo XIX, fasc. non numerato, cc. n. n. ma 90-91, 31 luglio 1572; cc. n. n. ma 92–93v, 9 dicembre 1573 [1572]; cc. n. n. ma 94-96v, 5 dicembre 1573 [1572]). Nel più datato di essi si fa riferimento a una donna di Lecce, «[…] Sibina […]», forse Sabina, « […] de magistro Grabrieli Lizardo […]» la quale potrebbe essere stata una figlia dell’artista.
Si precisa che tale documento è copia non datata (forse seicentesca), prodotta da Diomede Falli, Notaio in Carmiano (non è presente nell’inventario dei protocolli conservati presso l’Archivio di Stato di Lecce), di un atto rogato l’ultimo giorno di luglio del 1572 dal notaio «[…] Bartolomei Riglietta de Guagnano […]» (cc. n. n. ma 91, righe: 10 / 15–11 / 15; il nome del notaio non è presente nell’inventario dei protocolli conservati presso l’Archivio di Stato di Lecce), il cui cognome è molto simile a quel «Rigliecca Secretarius» presente nella perizia, 1574, per il campanile della cattedrale di Lecce (˂https://www.salentolive24.com/2018/07/05/lecce-gabriele-riccardo-gli-ultimi-anni-una-nuova-lettura/amp=1˃ (16 luglio 2018); alla c. 205v, riga 7 / 7). Nel documento del 5 dicembre 1573 [1572], cc. n. n. ma 97v, riga 4 / 4, si legge inoltre: «[…] margaritam lecciardam […]»; più in generale, nei tre documenti, quando presente, il cognome Riccardo (nelle sue varianti) non è usato in modo indeclinato.
[28] Un «Teodor Riccardo» fiammingo è per esempio presente in: ACALe, Atti di battesimo, 4 gennaio 1615, c. 58, riga 18 / 20.
[29] cazzato m., Riccardi Gabriele, in cazzato v.– cazzato m., Atlante del Barocco in Italia. Lecce e il Salento. I Centri Urbani, le Architetture e il Cantiere Barocco, Roma, De Luca, 2015, vol. I, pp. 648 – 649: 648.
[30] monaco a. m., Riccardi Gabriele, op. cit., p. 161.
[31] L’incisione con il nome è stata riportata anche in altre pubblicazioni; le trascrizioni, seppure differenti fra loro per alcuni aspetti, di fatto mancano, però, di una reale analisi fisica degli elementi componenti il testo epigrafico. Qui, per brevità, si segnalano solo le più recenti. «OPUS GA / ISRI / CCARDI /LICINI, incisione che, reintegrata, sarebbe: Opus Gabrielli Magistri Riccardi Licini […]» in: Idem, La ‘Gerusalemme Celeste’ di Otranto, op. cit., p. 71. La stessa trascrizione compare pure in Idem, «Qui sunt et unde venerunt?» Topoi iconografici per il consenso agiografico, in Houben H. (a cura di), La conquista turca di Otranto (1480)..., op. cit., pp. 157-195: 172, nota 25 dove Monaco così scrive: «La proposta di tale reintegrazione si deve a Mario Cazzato in Id., La prima attività di Gabriele Riccardi, cit., p. 95. Houben definisce azzardata la lettura proposta da Cazzato la quale però è da chi scrive condivisa, cfr. Houben, Gabriele Licciardo, cit., nota 18, e Monaco, La ‘Gerusalemme Celeste’, cit. p. 141».
E, a sua volta, Houben: «Mentre nel primo rigo si riesce a leggere OPUS GA, nel secondo rigo si vedono chiaramente soltanto le due ultime lettere RI; anche nel terzo rigo non è più leggibile la parte iniziale, ma soltanto quella finale e cioè CCARDI o CCIARDI con uno spazio, non spiegabile, tra la R e la D; l’inizio del quarto rigo, che è più stretto rispetto a quelli che lo precedono, è rimasto vuoto, mentre alla fine è scritto LICINI. Nel sopralluogo del 1770 l’intera epigrafe fu letta “OPUS GABRIELLIS RICCARDI LICINI”» (il testo è corredato dalla nota 18) in houben h., Gabriele Licciardo …, op. cit., p. 171; p. 176, nota 18: «Cazzato, La prima attività, cit., p. 95; Monaco, La ‘Gerusalemme Celeste’, cit. p. 145. La stessa lettura danno C. De Giorgi, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, vol. 2, Lecce 1888, p. 275, e Iscrizioni latine del Salento. Otranto, a cura di A. Corchia, Galatina 1992, p. 37. Azzardata mi sembra la lettura proposta da Cazzato, La prima attività, cit., p. 95 nota 8. «OPUS GA/(BRIELLIS) (MA)GI(S)TRI/…(RI)CCARDI/…LICINI»: qui anche la tesi che l’iscrizione dimostrerebbe «già in questa data l’attribuzione dello status di “maestro” al Riccardi».
[32] cazzato m., Riccardi…, op. cit., pp. 648 – 649.
[33] houben h., Gabriele Licciardo …,op. cit., pp. 167 – 178.
[34] A breve sarà effettuato di quel palinsesto lapideo anche un rilievo strumentale di dettaglio.
[35] Tabulae ansatae simili sono anche nei rilievi dell’arco dell’imperatore Tito (Roma 39 – Cotilia 81) a Roma dove è la rappresentazione del trionfo per la conquista di Gerusalemme avvenuta nel 70 d. C. cfr. Tito imperatore, in Enciclopedia Treccani ˂http://www.treccani.it/enciclopedia/tito-imperatore/˃ (23 luglio 2018).
[36] Essa è composta da due modanature affiancate: un listello all’esterno e un tondino verso l’interno.
[37] In questo caso la misura si è presa dal filo esterno inferiore della cornice che delimita tutto in giro lo spazio centrale della tabula.
[38] Questa altezza è stata misurata dallo stesso piano di base della rilevazione precedente.
[39] Misurata sulla circonferenza, nella mezzeria, tra il filo esterno sinistro e quello omologo destro della cornice in giro.
[40] Presa nella mezzeria, tra il filo esterno superiore e quello omologo inferiore della cornice in giro.
[41] È stato riportato solo quanto scritto a lettere accomunate da caratteristiche fisiche simili. Il testo è compromesso nella lettura da abrasioni e altre incisioni ‘occasionali’ sovrapposte. La trascrizione completa delle parti sciolte e loro traduzione è alla fine di quest’analisi.
[42] Il testo epigrafico delle prime tre righe è posizionato a circa cm 5.5 dal margine interno verticale sinistro della stessa tabula la cui altezza interna è pari a circa cm 5.5. Nella parte sinistra dell’epigrafe, quindi, si lascia vuoto uno spazio assimilabile a un quadrato di lato pari a circa cm 5.5.
[43] Per quanto detto «LECC(?)E» potrebbe essere cronologicamente posteriore a «INI».
[44] Prescindendo in realtà da un’analisi specifica dei singoli caratteri che la compongono e dalla riscontrabile diversità fisica degli stessi rispetto ai restanti caratteri.
[45] houben h., Gabriele Licciardo…, op. cit., p. 171.
[46] La «C» di «LIC», ad esempio, appare simile a quelle usate nei testi capitali dei fusti, soprattutto in quanto alla svasatura delle parti terminali, dettaglio questo che non sembra apparire invece nella successione leggibile come «INI».
[47] cazzato m., La prima attività di Gabriele Riccardi: le colonne dell’altare dei martiri nella cattedrale di Otranto, in “Studi Salentini”, a.44 (1999) vol. LXXVI, pp. 77-99: p. 95.
[48] I testi hanno, infatti, circa le stesse altezze ed interlinee.
[49] Per l’epigrafe con il nome dell’artista ciò naturalmente riguarda la terza riga in basso.
[50] Sul fusto in posizione C è incisa la data “1524”; la morte dell’artista sarebbe avvenuta fra il 1572 e il 1577 in. grasso f. a., Gabriele Riccardo…, op. cit.
[51] Si tratta delle tre righe che qui in precedenza si è ipotizzato essere state incise prima del ‘ripensamento’ che avrebbe prodotto «LIC».
[52] «LIC» dista dal margine verticale interno sinistro dell’epigrafe circa cm 7.5; si segnala in più che le tre lettere si sviluppano per una lunghezza, misurata sulla circonferenza, pari a circa cm 1.7.
[53] Le parti riconoscibili di questo carattere hanno dimensioni pressoché simili alla stessa lettera presa a titolo di esempio sull’epigrafe frontale dello stesso fusto: mm 5 circa il tratto lineare di base, mm 8.5 circa il tratto verticale.
[54] cazzato m., La prima attività…, op. cit., p. 94.
[55] Idem, pp. 91-98.
[56] grasso f. a., Gabriele Riccardo…,op. cit.
[57] houben h., Gabriele Licciardo…,op. cit., pp. 167-178: 174.
[58] Nel fusto in posizione A l’epigrafe simmetrica a quella con il nome, laterale destra, appare, invece, senza testo inciso (Fig. 10) anche se sembrano scorgersi pochi caratteri, simili fisicamente a quelli principali, segnati in modo appena percepibile.
[59] infantino g. c., Op. cit., pp.: 31 (presepe, cattedrale, Lecce), 230 (chiesa di Santa Croce, Lecce), 344 (statua raffigurante David che scrive, chiesa di Santa Maria del Foggiano, Lecce), 382 (statua raffigurante San Nicola di Bari, chiesa conventuale dei Santi Niccolò e Cataldo, Lecce), 401 (statua raffigurante sant’Antonio da Padova, chiesa di Santa Maria del Tempio, Lecce).
[60] ammirato s., Della famiglia de’ Paladini di Lecce, Firenze, Giorgio Marescotti, 1595, pp. 43 – 45. Nel testo l’autore, fra tutte le opere di Riccardo, segnala solo il presepe che è nella cattedrale di Lecce; lo scultore è ricordato come «Bello Lecciardo» senza indicarne l’origine geografica (p. 44).
[61] grasso f. a., Lecce, Cattedrale. l’altare del presepe; una nuova datazione, ˂https://www.salentolive24.com/2018/06/12/lecce-cattedrale-laltare-del-presepe-una-nuova-datazione/amp=1˃ (21 luglio 2018); idem, Lecce / Gabriele Riccardo, gli ultimi anni, una nuova lettura, ˂https://www.salentolive24.com/2018/07/05/lecce-gabriele-riccardo-gli-ultimi-anni-una-nuova-lettura/amp=1˃ (21 luglio 2018).
[62] supra nt. 13.
Ringraziamenti
Arcidiocesi di Otranto, Arcidiocesi di Lecce, Archivio di Stato di Lecce, Archivio di Stato di Bari, Biblioteca Arcivescovile “Innocenziana” -Lecce-, Biblioteca Arcivescovile “Annibale de Leo” -Brindisi-, Biblioteca Provinciale di Lecce “N. Bernardini”, prof. Franco Contini, Enrico Spedicato, Dott.ssa Lorella Ingrosso, Dott.ssa Katiuscia di Rocco, Clorinda Stefanelli – Dott. Luigi de Luca.