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Noemi, quando le parole non bastano

E’ davvero tutto qui? Io non capisco. Non comprendo la difficoltà che alcuni avvertono nel non concepire che una donna sia una persona, un essere umano; che una donna sia senziente, abbia passioni e desideri, sogni, ragioni, errori, tutto un bagaglio interiore come qualsiasi essere capace di discernere.

E mi dispiace, perché ci deve essere un grande, grandissimo errore di fondo se le “persone” non comprendono questo semplice concetto: siamo uguali.

Mi dispiace per tutte queste parole sprecate, rigurgitate su fatti e vite che non conosciamo, mi dispiace perché sono inutili. Non è più questione unicamente di parole, ma di linguaggio: è la base della società, il poter comunicare fra esseri della stessa specie, dovrebbe essere una priorità nelle nostre vite saper comunicare con gli altri. Eppure.

Eppure ecco che abbiamo fallito, irrimediabilmente.

Ogni volta che diciamo “l’ha uccisa per gelosia” come se fosse una scusa, abbiamo fallito; ogni volta che parliamo dei comportamenti “discinti, provocanti” di una ragazza stuprata, abbiamo fallito. Ogni volta che non sappiamo condannare la violenza in quanto violenza, falliamo. Tutti. Insieme.

Donne, uomini, non fa differenza, siamo tutti sullo stesso pianeta, abbiamo le stesse madri e gli stessi padri e tutti gli strumenti per capire che se il “femminicidio” esiste è colpa nostra. Perché non è normale dover etichettare una tipologia di omicidio, eppure eccoci qui a parlarne. Per l’ennesima volta.

Spesso sento di persone che non sanno perchè esiste il termine “femminicidio” : perchè utilizzare una parola diversa da “omicidio” per indicare a conti fatti la stessa cosa? Perchè non è un discorso semplice….l’omicidio ha tante ragioni, motivazioni, cause. Nel caso dei femminicidi se fate attenzione, no. C’è sempre la gelosia, il possesso, l’amore, l’odio, il rifiuto.  E se c’è uno schema ricorrente, c’è un problema perchè a quel punto non è più una possibilità, è un comportamento reiterato. Da cosa nasce? Perchè si è diffuso e perchè non se ne andrà mai?

Su questo si dovrebbe parlare per ore, discutere per giorni e mesi, e non sui particolari di uno stupro che ti raccontano la loro versione dei fatti, per appagare il mostro alimentato a morbosità che vive dentro ognuno di noi.

Quali parole ha ascoltato il ragazzo di Noemi per diventare ciò che è oggi? E quali ne ha ascoltate Noemi stessa? Quanti degli adolescenti nelle loro scuole sanno la differenza fra “amore” e “possesso”? A quanti è stato “insegnato” ad amare tra un problema di algebra e un’analisi del testo?

E quanti e quali erano gli adulti intorno a loro, coloro che hanno per dovere quello di proteggere i loro figli? Quando abbiamo smesso di vedere i figli degli altri come nostri?

In un mondo fatto di informazioni mordi-e-fuggi, dove basta un click per trovare tutta la conoscenza di cui si ha bisogno, perché non possiamo fare attenzione alle parole?

Certo, sarebbero secondi sottratti alla prossima notizia, alla prossima tragedia, al prossimo piccolo dramma…ma magari sarebbero anche una minima, intima forma di rispetto.

L’indignazione guida il mondo, ma sempre per i motivi sbagliati: perché non c’è indignazione per la mancanza di educazione sentimentale e sessuale? Perché l’educazione civica ed il rispetto della vita umana, sono concetti da dover ricercare fra le pagine dei blog e non sulla bocca di tutti?

Ogni vita tolta a nostro dire ingiustamente, forse è una vita che poteva essere salvata dall’educazione.

Quella che è mancata a quel genitore che ha definito “cancro” la relazione (decisamente malsana) fra il figlio e la sua fidanzata; la stessa persona che ieri alla trasmissione di Rai Tre “Chi l’ha visto”, ha giustificato un gesto violento e collerico con “ne aveva bisogno per sentirsi MASCHIO nei confronti della ragazza”. Quanto è concettualmente, socialmente ed umanamente sbagliato tutto ciò? Magari se a quell’uomo avessero insegnato il valore delle parole, si sarebbe comportato diversamente. Così come suo figlio.

Se le nostre parole sono così deboli ed inutili, non c’è da stupirsi che lo siano anche le nostre azioni.