Edoardo De Candia #AmoOdioOro in mostra a Lecce
A ben vedere, leggendo neanche troppo tra le righe, la vita di Edoardo De Candia sembra quella di San Francesco; gli aneddoti sulla sua erranza – che era un modo di militare la sua poetica dell’altrove e di essere nudo al mondo – si sprecano, insieme alla fastidiosa sensazione della tirchieria che Lecce, città che oggi in sua definitiva assenza si definisce sua, dovette mandargli incontro barattando sigarette con opere d’arte di conseguenza sparpagliate in molte collezioni private. Opere che fino a ieri, giornata di apertura al pubblico della prima retrospettiva dedicata a De Candia – “AmoOdioOro”, mostra a cura di Lorenzo Madaro e Brizia Minerva, allestimento firmato Big Sur, erano in un limbo diffuso, una specie di sala d’aspetto sparsa dentro le case, nei salotti, negli uffici, in un bar, il Martinica, che hanno restituito queste tessere di mosaico in occasione del percorso espositivo visitabile negli spazi di San Francesco della Scarpa. Una mostra che ti permette di perderti nella periferia amniotica e nell’immaginario desiderante di Edoardo, un labirinto di colori e parole che si inabissano nell’ignoto splendido di cui era fatto e, al contempo, nella cittadina sonnolenta ed equorea che lo disfaceva come la pietra friabile erosa dalla luce imperiosa di quaggiù.
C’è un’idea di narrazione che recupera quella meravigliosa confusione dell’infanzia adulta perenne in Edoardo, c’è una promessa mantenuta, una doverosa restituzione in questa mostra da non perdere. Quell’irrequietezza che era l’inquadratura dello sguardo di Edoardo, si è fatta mostra per il visitatore che saprà cogliere la bellezza maleducata di un mondo che si lascia intravedere attraverso uno stelo d’erba, la macchia retrodunale, i lombi femminili e i segni che derbordano i fogli per urlare e non soffocare il loro Eccomi, sono qui per amare chi riconoscendomi sarà considerato pazzo. E’ chiaro che i pazzi siamo noi, pronti a ringraziare meglio tardi che mai chi ha misurato lo straniamento e lo smarrimento a grandi falcate, un viaggio pieno di tappe Senza Titolo, in cui solo l’anno in giustapposizione diventa bussola, astrolabio, cosmogonia delle passioni edoardiane. Un ragazzo in equilibrio in cima agli alberi che circondano le balconate di certe palazzine popolari, si accende una sigaretta con un gesto che ricorda gli angeli irregolari catturati nelle poesie di Ginsberg, è una delle fotografie parallele alle opere che costituiscono, come spiega Brizia Minerva “una produzione sterminata finalizzata alla vendita, per diecimila lire, del foglio imbrattato con la sua firma. In questo rapporto con la città perbenista che da una parte non lo accetta, perché anarchico e libertario e dall’altra è pronta, in un’etica piccolo borghese, a comprare i suoi disegni, con la speranza di una meschina speculazione in vista della sua morte imminente.“
Quante volte può morire un artista? Forse la risposta è quel falò eretico che brilla al centro della biografia edoardiana, a soli vent’anni un atto spartiacque compiuto insieme a Saverio Dodaro per distruggere tutte le opere prodotte sino a quel momento e dare avvio a un nuovo incipit. Seguiranno le dimissioni momentanee dalla Lecce degli anni Cinquanta, miraggi chiamati Milano, Londra, Torino, l’amicizia condivisa con artisti che sono poi riusciti a consolidare la propria diserzione e far saltare ai propri nomi l’asta dell’oblio. Ma alla fine, lo si percepisce benissimo man mano che la visita lungo il percorso espositivo Amo.Odio.Oro si snoda, Lecce isola maledetta se lo riprende e lo mastica, o meglio, per dirla con parole di Verri“Lecce, l’instabile donna allegra e leggera che conosciamo: mentre da un lato celebrava, dall’altro prendeva i provvedimenti necessari…“.
Un cortocircuito ben espresso dal commento diLorenzo Madaro: “Edoardo entra nel tessuto profondo di Lecce, il suo sogno “eroico” si dirama nell’immaginario collettivo. E’, a fasi alterne, rimosso e poi reintegrato, come una moda o come una vergogna. Con questa mostra diventa finalmente oggetto di studio attraverso una selezione ragionata di oltre cento opere, uno sguardo trsversale idealmente connesso con tre grandi linee di pensiero, denominate come i tre sottotitoli Amo.Odio.Oro. Edoardo De Candia, insieme ad Ezechiele Leandro, è stato certamente l’artista più estremo, totale e outsider della Puglia nella seconda metà del secolo scorso. Entrambi sono stati fraintesi, ignorati, probabilmente anche sfruttati. E, soprattutto, fino a tempi recenti, non sono mai stati oggetto di analisi, che invece – spesso – sono stati consacrati a nomi del tutto secondari rispetto al dibattito artistico in Terra d’Otranto”.
Sì. Tant’è che viene in mente un verso di Isaia Spiegel dopo aver visitato una mostra tanto attesa, tanto necessaria, tanto rispettosa: “Il mio corpo è un pane, calato in un calice di sangue.“