Il cortocircuito linguistico che ha portato la “Giornata Internazionale della Donna”, a diventare la “Festa della Donna”, è uno di quei controsensi squisitamente italiani. Mentre i puristi della lingua, ancora dibattono se sia più o meno giusto declinare parole e mestieri al femminile, una “Giornata” si è trasformata in festa, senza che nessuno battesse ciglio. Nei brillanti contributi sul tema che oggi è possibile trovare un po’ ovunque sui social, spiccano quelli che fanno notare che fare gli auguri per la Giornata Internazionale della Donna, è come farli per la Giornata della Memoria, o per la ricorrenza dei Caduti. Sia chiaro: non che la gioia non possa far parte della lotta alla parità di genere, anzi. Ma non è il punto della ricorrenza. Occorre fare un po’ di chiarezza: no, nessuna fabbrica di camice è andata a fuoco l’8 marzo 1908 a New York. L’evento immaginario (quasi un “effetto Mandela” nato a causa dei media) della ricorrenza, è probabilmente stato ispirato da un terribile fatto realmente accaduto, il 25 marzo del 1911, l’incendio della fabbrica Triangle nel quale morirono tantissimi fra lavoratori donne e uomini, per la stragrande maggioranza giovani e di origini italiane o ebraiche. Le conseguenze giudiziarie ebbero un’estrema risonanza per quanto riguarda la lotta alla sicurezza e ai diritti dei lavoratori che ne seguirono, senza distinzione di sesso.
Prima del 1911 comunque, vi erano già state delle “giornate della donna” nate nell’ambito dei movimenti per l’inclusione politica e il diritto di voto per le donne, portati avanti tra XIX e XX secolo. Erano delle giornate ricorrenti, nelle quali le donne si riunivano per parlare di politica, diritti, economia, lotte civili; man mano che i movimenti si sono diffusi in Europa, le giornate si sono diversificate: non venivano realizzate ogni anno o sempre nello stesso giorno. E si interruppero quasi ovunque con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. La data più diffusa era effettivamente l’8 marzo, ma solo il 16 dicembre 1977, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite propose ad ogni Paese di dedicare un giorno all’anno alla “Giornata per i diritti delle Donne e per la pace internazionale”. Un evento di una certa rilevanza, e relativamente recente.
Quindi sì, la Giornata della Donna non è una festa, le donne non vanno “festeggiate ogni giorno non solo l’8 marzo”, no i cioccolatini sono superflui e uscire con le amiche non è obbligatorio: ma il punto di questa Giornata è avere la possibilità di scegliere di poter fare e dire tutte queste cose. Ed è da questa consapevolezza che oggi dobbiamo continuare a lottare: perchè se (almeno in Italia) nessuno ci può impedire di andare in discoteca, se vogliamo, l’occupazione femminile è tra le più basse di tutta Europa. Si continua a chiedere alle donne di fare figli ma le si licenzia per questo (è notizia di pochi giorni fa che una donna a Brindisi verrà rimborsata del danno di essere stata licenziata dopo aver comunicato la notizia della sua gravidanza); le donne sono ancora la maggior parte di coloro che si occupano dei bambini e degli anziani nelle famiglie, spesso senza aiuto istituzionale e spesso da sole. La storia di Giulia (e di tutte le altre) non è servita assolutamente a diminuire i casi di femminicidio, e sono migliaia le donne che nonostante le novità introdotte dal Codice Rosso, non riescono ad essere al sicuro da stalker ed ex violenti.
Anche la narrazione del “è donna ma è speciale” è fortemente antiquata: no, non meritano i diritti solo le Margherita Hack e le Maria Montessori, non tutte le donne sono o devono essere “speciali in qualcosa”, ma tutte senza distinzioni, devono ricevere rispetto. I diritti non si meritano, si hanno in quanto esseri umani.
Quindi l’8 marzo non è una festa ma un invito alla lotta per la parità di diritti ed opportunità. E per avere la libertà di festeggiarla, se ci va.