Come il Gattopardo. Peggio del Gattopardo. Perché in questo caso gli attori protagonisti, i personaggi in cerca dì autore e le comparse di vario genere, sono di basso profilo anche se la posta in palio è alta: l’elezione del presidente della Repubblica. La fumata bianca – giunta dopo ben otto scrutini – è arrivata in serata. Sergio Mattarella è il nuovo – vecchio – Capo dello Stato. Un’anomalia tutta italiana. Al termine del mandato saranno quattordici gli anni ricoperti dalla stessa persona in un ruolo apicale e di garanzia della nostra Repubblica. Nulla da dire sul piano personale, sia chiaro. Ma resta pur sempre un elemento piuttosto singolare che nulla a che vedere con una fase emergenziale.
L’aspetto più meschino e patetico di questa vicenda istituzionale è rappresentato dall’entusiasmo con cui è stata salutata la convergenza sul nome di Mattarella. Scene di giubilo corredate da dichiarazioni fuorvianti e autorefererenziali, una corsa stucchevole per intestarsi una vittoria di Pirro. Un religioso e dignitoso silenzio sarebbe stato auspicabile. Meglio tacere dopo aver assistito ad uno spettacolo indecoroso, uno dei peggiori offerti dalla politica italiana nel dopoguerra. Perché nessuno può minimamente pensare di avere l’ardire di cantar vittoria. Hanno perso tutti. Dilettanti allo sbaraglio saliti su un palcoscenico troppo grande per la loro incapacità di gestire una situazione complicata e ingarbugliata.
Ecco perché ascoltare certi commenti fa sorridere. Come le dichiarazioni rilasciate dal segretario del Pd Enrico Letta che con il passare delle ore continua a gonfiare orgogliosamente il petto, quasi che il partito sia riuscito ad uscire indenne da questa buriana presidenziale. E invece anche i dem hanno le loro responsabilità, non fosse altro che in questa partita non sono mai scesi in campo (tranne un timido tentativo per lanciare la Belloni, sostenuto solo da un pezzo del partito), lasciando la palla ad altri (Salvini e Lega, su tutti) salvo poi “bucare” il pallone, cancellando candidature e stoppando vari tentativi di trovare una quadra. Chi merita un bel quattro in lavagna è proprio mister Papetee, da “king maker” a “black maker” il passo è breve: il segretario della Lega è riuscito a bruciare candidati (dodici in tutto) quasi fossero noccioline da sgranocchiare guardando un film. Un regista ingenuo e sprovveduto, bravo ad alimentare consensi, meno bravo a immaginare strategie politiche vincenti. Certo, più di qualcuno ha fatto il furbo nel centrodestra lasciando che Salvini andasse a sbattere contro un muro. Un atteggiamento che, ovviamente, avrà ripercussioni sugli equilibri di governo e sui rapporti interni alla coalizione. Il passo indietro di Berlusconi che nei giorni scorsi ha ritirato la sua candidatura al Quirinale non è servito a far battere le carte ai big di Forza Italia. Al contrario, il rischio è che a questo punto diventi difficile evitare una possibile emorragia tra gli azzurri, arrivati al traguardo delle presidenziali sfilacciati e – in alcuni casi – supini rispetto all’ipotesi Mattarella.
Ad uscire malconcio dal tormentone presidenziali è stato anche Giuseppe Conte. Non è più il Conte rassicurante e accattivante che abbiamo conosciuto quando vestiva i panni di presidente del Consiglio. Volto tirato, aria che nasconde difficoltà evidenti, almeno fino a qualche ora fa. L’intesa tra i Grandi Elettori gli ha ridato luce e sicurezza: “Le trattative erano riservate, ma ciò non vuol dire che ci fossero percorsi opachi”, quasi a voler giustificare il fatto che i Cinquestelle non avessero le idee chiare sul nome del presidente della Repubblica. La verità è che l’operazione-Quirinale ha dimostrato invece che la leadership all’interno del movimento non è affatto scontata. Anzi. L’immagine dell’avvocato del popolo ne esce ridimensionata: troppe voci discordanti nel Parlamento, troppi cani sciolti difficili da governare. È l’altra faccia della medaglia di un movimento sin troppo “liquido” che ora fatica a galleggiare in questo marasma politico.
Chi è riuscito a resistere alle intemperie del Quirinale è Matteo Renzi: l’ex premier e sindaco di Firenze questa volta evita di fare il guastafeste trovando comunque il modo di ritagliarsi un ruolo di primo piano nella scelta gattopardesca su Mattarella. Da buon democristiano, ecumenico e coerente: scelta obbligata visto che il gioco del Quirinale rischiava di trascinare con sé il “suo” Draghi lasciando libera la casella di Palazzo Chigi.
E la Meloni? Si salva anche lei smarcandosi dall’ammucchiata. Atteggiamento lineare e che potrebbe dare i suoi frutti in un futuro non tanto lontano quando potrà giocarsi le sue chance dal gradino più alto del centrodestra alla luce del flop di Salvini. Ma per il salto di qualità i tempi non sembrano maturi. La leader di Fratelli d’Italia fa ancora fatica a ritagliarsi uno spazio politico-istituzionale di primo piano, scalzata da azzurri e leghisti, terzo incomodo di una macchina che rischia di ingolfarsi.
L’unica cosa certa resta l’asse Draghi-Mattarella. Un binomio che oggi appare inossidabile: l’ex numero uno della Bce deve ringraziare Mattarella per essere lì a Palazzo Chigi. Viceversa il Capo dello Stato non potrà fare a meno di lui dopo la “benedizione” di Draghi. Per qualcuno il futuro sembra già scritto: il presidente del Consiglio potrebbe prendere il testimone di Mattarella al Quirinale. Magari fra poco più di un anno, quando terminerà questa controversa e deprimente legislatura. Speriamo di aver toccato il fondo.