Summa
Tre “nuove opere”, anzi “quasi” quattro, di cui una frutto di uno lungo, avventuroso perché ostacolato ritrovamento, ampliano le conoscenze sull’attività di Gabriele Riccardo, scultore e architetto dei più significativi del Rinascimento italiano meridionale. E fra essi, due opere forse le più antiche di questo artista, ma non solo, perché è stata scoperta anche la chiesa, oggi non più esistente, da cui proviene la statua ritrovata. Un’indagine che si muove attraverso città diverse, come Corigliano d’Otranto (Lecce) e lo stesso capoluogo salentino, e poi sculture, figure, allegorie, incisioni, dipinti quattrocenteschi, in un curioso innesto con la storia del cinema. Cosa c’entra, infatti, Gabriele Riccardo con il film Avatar e con Silvana Pampanini?
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Gabriele Riccardo (notizie dal 1524 al 1572) è per molti colui il quale progettò la chiesa di Santa Croce a Lecce, per pochi, invece, l’autore di una serie limitata di opere scultoree indicateci da Giulio Cesare Infantino che -nel descrivere le chiese del capoluogo salentino in una sua opera intitolata Lecce Sacra edita il 1634- di fatto realizza una sorta di primo racconto compendioso di questa significativa figura artistica del Rinascimento meridionale. Le statue che compongono il noto presepe nella cattedrale, il San Nicola nella chiesa degli Olivetani, una perduta statua raffigurante sant’Antonio da Padova, un David che scrive (oggi nel museo Provinciale “Sigismondo Castromediano”), tutte a Lecce, cui è da aggiungere l’unica sua opera autografa (datata 1524), non ricordata dall’Infantino, ovvero le quattro colonne componenti un tempo l’altare dedicato ai Santi Martiri e ancora oggi esposte, seppure smontate in quanto l’altare cinquecentesco non esiste più, nella cattedrale di Otranto. Se dovessimo far comprendere le caratteristiche del suo modo di concepire la scultura si potrebbe ragionevolmente usare il termine “realismo” nel senso che le figure sono rappresentate con un’attenzione tutta particolare a dettagliare il vero senza mai dare l’impressione di varcare la soglia dell’astrazione. Nei volti umani, ad esempio, c’è la volontà di una ben precisa espressività attraverso le modulazioni della superficie dell’epidermide; particolare è anche l’attenzione prestata alla realizzazione degli occhi, del naso, delle mani. Quanto detto, allo stato attuale delle ricerche, costituisce un argomento d’interesse singolare nel panorama della scultura rinascimentale dell’Italia meridionale e rende più gravoso il fatto che poche siano, ancora oggi, le sue opere note a dispetto di un’attività professionale durata circa cinquanta anni (limitandosi al puro dato documentario). Quasi nullo pure il numero dei documenti storici che lo riguardano in modo diretto. Tutto ciò obbliga, quindi, a un approfondimento ogni volta in cui si apre la possibilità di accrescere il numero delle opere ricollegabili a questo artista. In tale direzione si muoveranno le considerazioni a seguire.
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Nel 2013 fu pubblicato il catalogo di una mostra tenutasi a Lecce intitolata La Puglia il manierismo e la controriforma in cui il curatore di entrambi, Antonio Cassiano, docente presso l’Università del Salento e direttore del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano”, inseriva nel suo saggio la fotografia di una statua raffigurante San Michele Arcangelo. La riproduzione, in bianco e nero, visibilmente sfuocata, faceva riferimento a sei righe all’interno della parte testuale del contributo in cui l’autore scriveva (p. 11): «[…] Ed è probabile che gli appartenga anche un San Michele di vibrante bellezza, in collezione privata a Lecce, ad un passo già da più complesse morfologie manieriste. Forse una delle sue ultime opere» [i corsivi sono dell’autore del saggio]. L’artista cui si riferisce il curatore è «Gabriele Riccardi». Il testo del catalogo qui riportato è completato in più da un commento (p. 15, nota 19) in cui il medesimo studioso aggiunge: «Il santo è visto di profilo e colto quasi in movimento, appare quasi un pronunciato bassorilievo destinato a decorare una facciata come nel torrione di San Michele del castello di Corigliano d’Otranto [seguono i ringraziamenti ai proprietari]». Tutto qui, è il caso di sottolineare. Chi, fra i lettori, però, avesse una qualche esperienza in materia di studi storico – artistici potrebbe già avere notato la singolarità delle righe appena riportate. Il curatore attribuisce, in sostanza, un’opera a uno scultore ma, di fatto, benché, la statua fosse ritenuta dal medesimo pertinente come argomento alla tematica di mostra e catalogo, non fornisce gli strumenti (documenti storici, confronti stilistici, argomentazioni varie e così via) che possano giustificare quella sua ipotesi. A ciò si aggiunga che nella didascalia della foto non compare il nome di Gabriele Riccardo (neppure in via dubitativa) ma più genericamente si legge: «Scultore salentino, seconda metà del XVI secolo, San Michele, Lecce, collezione privata». Nel catalogo non compaiono schede specifiche e neppure una ben precisa e chiara bibliografia su quell’opera. Tutti questi elementi hanno reso fino a oggi impossibile sia la verifica che l’approfondimento dell’argomento tanto è vero che nell’Atlante del Barocco (V. Cazzato V. – Cazzato M., Atlante del Barocco in Italia. Lecce e il Salento. Vol. 1. I Centri Urbani, le Architetture e il Cantiere Barocco, Roma, De Luca, 2015), dedicato proprio ad Antonio Cassiano, nella scheda monografica riservata a Gabriele Riccardo, la statua non è menzionata fra le opere attribuite a questo scultore e architetto. Tutto qui, verrebbe da sottolineare ancora una volta. E proprio partendo da questa evidente e palpabile incertezza, indeterminazione si è deciso prima di tutto di studiare la statua e per questo era fondamentale ritrovarla visto che nel catalogo non si scrive dove tale opera era, a quella data, custodita. La ricerca di questo san Michele Arcangelo, durata circa tre anni, si è conclusa qualche giorno fa e adesso è possibile fare un’analisi più puntuale oltre che comparativa.
Sono, però, da aggiungere prima di procedere alcuni dettagli per onorare la verità dei fatti. Si è constatato, dopo il rinvenimento dell’opera, che la proprietà non era a conoscenza né che la statua era stata fotografata né che una sua immagine era stata inserita nel catalogo di quella mostra a Lecce né, infine, risulta una richiesta di autorizzazione per quella pubblicazione; si precisa in più che la scultura è all’interno di una abitazione privata ma non fa parte di una collezione. A questo punto, e almeno per il momento, per più che comprensibili ragioni di riservatezza, così come richiestoci esplicitamente, sono stati eliminati da quest’analisi preliminare tutti quei riferimenti che possano consentire l’identificazione della proprietà e del luogo di collocazione della scultura. Per semplicità, anticipando qui i risultati, questo san Michele Arcangelo a Lecce sarà identificato momentaneamente come quello dei Gala (dal cognome di una delle famiglie che ha posseduto tale opera).
Figg. 1 – 9. Lecce, san Michele Arcangelo, Gabriele Riccardo (attr.)
La statua di san Michele Arcangelo, in pietra leccese, collocata a ridosso della parete di fondo dell’atrio di un’abitazione, ha un’altezza di circa 144 cm., un’ampiezza frontale di circa 77 cm. e una profondità di circa 49 cm.
Essa è, di fatto, una scultura a tutto tondo anche se la sua parte posteriore appare piana in linea di massima, non scavata; forse era destinata a essere appoggiata a un muro. Sono visibili, inoltre, parti colorate (come, per esempio, la corazza in azzurro con bordo dorato ma i colori, da quanto riferitoci dalla proprietà, non sarebbero, però, quelli originali) e tracce di una scialbatura bianca che potrebbe nascondere anche quelle di una probabile colorazione originale. I bulbi oculari del Santo, sembrano essere in materiale extra lapideo; essi sono inseriti all’interno del vano oculare sormontato da un’ampia arcata sopraccigliare. All’interno del suo occhio destro è ancora visibile la pupilla (un incurvato strato sottile in materiale trasparente) inserita nel bulbo. Sarebbe necessaria un’indagine scientifica appropriata per datare e comprendere l’esatta natura del materiale con cui sono realizzati tali occhi. Presente il naso in modo integrale e così pure una poco larga bocca che, in proiezione, appare ampia tanto quanto la base del naso stesso. La cautela in tali casi non è mai abbastanza e quanto detto a proposito del volto non consente, a nostro parere, di assegnare con certezza l’opera a Gabriele Riccardo.
Quello che è apparso chiaro fin da subito è che questo studio non avrebbe avuto uno sviluppo lineare e soprattutto che sarebbe stato destinato a coinvolgere più opere e luoghi. Tornando alle parole del saggio da cui questa indagine ha preso le prime mosse, si nota come l’unico approfondimento in esso contenuto è che il san Michele Arcangelo a Lecce fosse destinato, ribadiamolo, «a decorare una facciata come nel torrione di San Michele del castello di Corigliano d’Otranto»; in termini generali, appare evidente, però, che il riferimento a questa seconda statua è stato dettato solo dal tema e dalla posa delle figure, i medesimi in entrambi i casi. Nient’altro. Nulla si dice, infatti, dal punto di vista stilistico, della statua omonima castellana. Il confronto fra le due opere, quella di cui ci occupiamo e quella a Corigliano D’Otranto, consente, invece, di andare decisamente oltre la semplice affermazione contenuta in quel catalogo. La scultura coriglianese è inserita nella muratura del baluardo detto appunto di San Michele Arcangelo che è quello circolare a sinistra entrando nella fortezza dalla porta principale.
Figg. 10 -27. Corigliano d’Otranto (Lecce), Castello, san Michele Arcangelo, Gabriele Riccardo (attr.), 1514 (?)
Tale opera emerge, solidale e ad altorilievo, da una retrostante lastra rettangolare con cornice in giro, affossata nella facciata curvilinea del torrione; il colore della pietra leccese con cui è realizzata molto la fa spiccare rispetto alla muratura retrostante che è invece in tufo. Il Santo è raffigurato mentre con uno spadone, sollevato in aria posto dietro il capo, sta per sferrare un colpo, forse quello mortale, contro il drago soggiogato. La bestia demoniaca appare, infatti, schiacciata tra i piedi del Santo e una sporgente mensola sulla cui parte frontale, inclinata verso il basso, è inciso un testo epigrafico su quattro righe in capitali romane che danno voce all’Arcangelo. Questi, parlando in prima persona, afferma:« Ense potens sum alisque / celer defensor et arcis, / quumque opus est ferio, / quumque volare volo» ovvero «Sono forte con la spada e veloce con le ali e difensore della rocca, quando bisogna (colpire) io colpisco, quando (bisogna) volare io volo». Volendo conferire un minimo di leggerezza a quest’analisi verrebbe da dire che ci troviamo davanti a un fumetto moderno con la differenza che quanto detto non è contenuto in una “nuvoletta” sopra la sua testa ma in una epigrafe incisa sotto i piedi del personaggio parlante. L’essere di profilo non è un dettaglio di poco conto, tanto più se lo mettiamo in relazione con la statua del san Michele oggetto di questo studio caratterizzata anch’essa da un angelo nella stessa posizione. Riportiamo nuovamente, per comodità del lettore, quanto scritto sull’argomento da Antonio Cassiano: «Il santo è visto di profilo e colto quasi in movimento, appare quasi un pronunciato bassorilievo destinato a decorare una facciata come nel torrione di San Michele del castello di Corigliano d’Otranto».
Il fatto che entrambe le opere siano simili per posizione (benché una a tutto tondo con le parti nascoste alla vista poco o per nulla caratterizzate, e l’altra, un altorilievo) non può consentire di affermare con certezza che quella dei Gala a Lecce doveva essere destinata a decorare una facciata così come nel torrione. In sostanza non c’è un rapporto causale diretto fra l’essere di profilo di una figura e il contesto a Corigliano sia rispetto alla forma circolare dell’architettura in cui una delle due statue è inserita sia rispetto alla funzione di facciata di quel muro. E allora viene fuori la domanda, cui proveremo a dare una risposta, riguardo al luogo dove la statua, quella dei Gala, potrebbe essere stata collocata in origine.
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E’ necessario, però, analizzare prima di tutto la scultura a Corigliano rispetto a un tema singolare ovvero quello dell’esistenza o meno di un punto privilegiato di osservazione e tutto ciò per comprendere meglio anche l’altra, la leccese. Dal punto di vista figurativo molto è stato qui già detto (e altro aggiungeremo in seguito) certo è che un elemento chiave per l’identificazione del punto di vista principale è proprio l’epigrafe collocata sotto san Michele e il suo rapporto diretto con il Santo. Quella scena si spiega in sostanza solo ponendosi proprio davanti alla rappresentazione e a una distanza tale da rendere visibile il messaggio inciso (per esempio un buon punto di osservazione / lettura dei testi è l’accesso alla fortezza). Qualunque altra posizione, come quella angolata, finirebbe con il far perdere l’efficacia di questa ideazione formale anzi di più, finirebbe, infatti, con il mostrare quelli che potremmo definire degli espedienti adottati per mettere in scena quella rappresentazione. Uno di questi è la mensola sporgente la cui parte frontale ospita l’incisione. Un osservatore messo di lato non solo non leggerebbe l’epigrafe ma vedrebbe la sporgenza della mensola e il taglio inclinato che la caratterizza rendendola leggibile anche dal basso ovvero dal fossato sottostante. La mensola cui si accennava è quella sulla quale è schiacciato il drago nella lotta contro l’angelo; quella sporgenza ospita, quindi, una parte importante del racconto (figurativo e verbale / analogico e digitale) e il suo essere in vista appare necessario al trasferimento del messaggio. Lo scultore avrebbe, in effetti, potuto anche scavare un vano, atto a ospitare l’altorilievo, nelle pareti del torrione e il grande spessore murario della struttura retrostante avrebbe ben potuto consentire senza problemi l’incavo necessario pari a quello che oggi vediamo come sporgenza. Questa scelta obbliga poi l’artista a tagliare in modo inclinato la mensola così da raccordare la sua parte superiore (il piano di appoggio del drago) con il punto superiore del cordolo semicircolare (redondone) sottostante. Il proiettare in avanti, fuori dalla parete del torrione, sembrerebbe volere chiamare in causa lo spazio, il movimento di un osservatore che si spostasse lungo il perimetro stesso del fossato anche se, come si è già rilevato, quest’approccio appare irrisolto. Chi guarda, infatti, acquisisce gradualmente una scena imperfetta (per via degli espedienti adottati nella costruzione della storia da raccontare) che si chiarisce solo nel momento in cui, esattamente di fronte alla statua, è messo nella condizione di leggere l’epigrafe sottostante ovvero ascoltare le parole di san Michele Arcangelo e vedere quest’ultimo in azione (da non dimenticare, inoltre, che all’epoca non tutti erano in grado di scrivere e leggere e quindi l’opera si muove sul doppio registro analogico e digitale). Assistiamo, in realtà, all’emergere della figura alata dalle costrizioni di un quadro passando cioè dal bidimensionale al tridimensionale; e proprio nella pittura possiamo trovare utili termini di riferimento per il soggetto scolpito. E’ quindi anche la sporgenza rispetto al filo esterno della parete a rendere singolare questa scultura oltre che il suo punto di vista privilegiato ossia, come detto, quello frontale; tanto più se consideriamo che le altre epigrafi presenti sui rimanenti torrioni (esclusa, per certi versi, quella di san Giorgio che si analizzerà meglio successivamente) e sul medesimo di San Michele sono inserite a filo con il muro, verticali e “frontali”. Aggiungiamo un ultimo dettaglio che spinge alla medesima conclusione: all’angelo, il combattente, manca l’orecchio destro e ciò non per via del degrado del materiale. Una visione solo laterale avrebbe messo in evidenza quella che è una mancanza rilevante nella raffigurazione. Verrebbe da pensare che questa immagine sia stata costruita come una sorta di carrellata filmica in cui di un personaggio si mostra un dettaglio, anche imperfetto, il quale invogli lo spettatore alla scoperta.
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Fra tutti gli elementi costitutivi della narrazione figurativa, l’immagine del drago sembra essere forse la più significativa perché quella più esplicativa della natura stessa di tali sculture. Nella rappresentazione a Corigliano, quel drago, seppure simile alla soluzione presente in quello dei Gala, appare schiacciato non solo in terra, come qui già evidenziato, ma anche sulla parete di fondo. Nel caso, invece, della scultura a Lecce il medesimo soggetto diabolico si muove libero contorcendosi nello spazio. Per capire e disegnare questa figura è necessario girarci tutto attorno, nei limiti consentiti dall’attuale collocazione, cosa che invece non si può fare affatto per il drago a Corigliano, almeno entro certi limiti. Quest’ultimo si spiega subito perché condannato a una visione frontale; esso è là, in alto sul torrione, senza soluzione di continuità con parete di fondo e lastra retrostanti e la statua angelica che lo schiaccia. In un caso, sempre quello a Corigliano, la frontalità appare l’unica possibilità di vista; nell’altro, quello dei Gala, invece la frontalità è solo uno dei modi di vivere quell’aerea battaglia fra il Bene e il Male, fra l’arcangelo e il drago; in quest’ultimo caso la posizione quasi da seduto, a cavalcioni, dell’arcangelo ricorda quella, ad esempio, di sant’Antonio da Padova fra sant’Antonio Abate e san Nicola da Tolentino raffigurato in un dipinto (tela, cm 315 × 203) del 1530 di Alessandro Bonvicino (detto il Moretto; 1498 ca. / 1554) oggi presso la Pinacoteca Civica Tosio-Martinengo di Brescia (Fig. 28: www.fondazionezeri.unibo.it ). C’è in ogni caso nella statua a Corigliano, lo si accennava in precedenza, attraverso la sporgenza rispetto al filo del muro, il tentativo, benché non ancora, però, completamente indagato nelle sue effettive potenzialità, di coinvolgere lo spazio circostante in modo ancora più intenso e soprattutto compiuto che non, per esempio, nella scultura di san Giorgio posta nell’omonimo torrione dello stesso castello attribuibile ad altro autore.
Fig. 28. Tela, cm 315 × 203, 1530, autore: Alessandro Bonvicino (detto il Moretto; 1498 c.a / 1554); sant’Antonio da Padova fra sant’Antonio Abate e san Nicola da Tolentino, oggi presso la Pinacoteca Civica Tosio – Martinengo di Brescia.
Della scultura dei Gala tutto ciò che abbiamo è l’opera stessa ed essa nulla ci dice della sua posizione originaria se non il fatto che i dettagli esecutivi lascerebbero supporre un punto di osservazione ravvicinato, forse addirittura in un interno e a una altezza da terra tale da far leggere particolari esecutivi come il piumaggio delle ali o le nubi a tutto tondo poste al di sotto di angelo e drago.
In questa indagine comparata emerge forte l’importanza del contesto. Raccontare di una scultura separandola dalla realtà in cui è inserita finirebbe con il far rinunciare a una parte del suo valore artistico. Abituati, oramai, come siamo a subire opere d’arte strappate dai loro contesti originali per essere esibite (o meglio inibite) in mostre, proprio queste parole potrebbero apparire fuori contesto. E invece insistiamo nel ricordare ciò che è la vera natura del raccontare un’opera. Se per il caso della scultura dei Gala nulla, come accennato, possiamo dire al momento della realtà in cui era inserita, il contesto cui appartiene la scultura coriglianese è invece in massima parte ancora lì e vale la pena raccontarlo e capirlo, o meglio ancora, lasciarlo parlare e ascoltarlo.
La scultura di Corigliano e il suo contesto.
Un aspetto significativo del san Michele a Corigliano è quello della sua posizione sul rispettivo torrione ma non solo. Ciò riguarda, infatti, anche le altre sculture, tutte parlanti, presenti sulle pareti del medesimo castello. Su ciascun torrione (quattro in tutto), poggianti sul redondone, sono, infatti, collocate due tipi di lastre lapidee: il primo contiene la rappresentazione di una delle quattro virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza); il secondo, la raffigurazione del santo titolare del torrione; tutte sono accompagnate nella loro parte inferiore da un’epigrafe in cui a parlare è il santo in prima persona e ognuna delle allegorie. Queste ultime sono associate ai santi nel seguente modo: san Giorgio – Prudenza, san Giovanni Battista – Giustizia, san Michele Arcangelo – Fortezza, sant’Antonio Abate – Temperanza (oggi non più leggibile e quindi solo desumibile). Nei due torrioni esterni al perimetro delle mura (quello di San Giorgio e l’altro di San Giovanni Battista) le immagini dei santi giacciono distanti dalle allegorie (rispettivamente Prudenza e Giustizia) più che negli altri casi. Le statue di sant’Antonio Abate e quella di san Giovanni Battista sono bassorilievi raffiguranti quei santi in posizione frontale. La scultura di san Giorgio, pure un bassorilievo, raffigura la scena dell’uccisione del drago disteso e schiacciato sotto cavallo e cavaliere, entrambi di profilo e poggiati su un blocco poco sporgente rispetto al margine superiore del redondone; la faccia frontale di tale basamento reca una incisione (epigraficamente simile alle precedenti). Questa scultura, pur molto simile, per le figure di profilo, a quella del san Michele, sembra però mancare proprio di quella vitalità che, anche attraverso la sua sporgenza, caratterizza la seconda. Tutte le statue dei santi sui torrioni (eccetto il san Michele) sono caratterizzate da uno stato conservativo della pietra tale da non rendere possibile in tre dei quattro casi una lettura dei loro dettagli somatici. Quanto è rimasto spingerebbe però ad affermare che non si tratti del medesimo autore della scultura del san Michele; per il baluardo di Sant’Antonio Abate invece, benché pure il volto di questo santo abbia perso i connotati principali, i pochi elementi rimasti consentono di affermare che l’autore sia lo stesso che ha scolpito i volti che decorano le mensole sommitali nel medesimo torrione e, all’interno di quest’ultimo, il fregio scolpito a figure e motivi vegetali della sala ottagonale (allo stesso autore sarebbe da attribuirsi anche il portale della chiesa leccese di Santa Maria degli Angeli cominciatasi a costruire nel 1524; da rilevare in più che le teste d’angelo messe a formare la teoria semicircolare nella ghiera di questo portale sono simili a quelle presenti in una lunetta lapidea scolpita a bassorilievo – oggi presso il Museo Provinciale di Lecce – raffigurante il Padre Eterno).
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Lo schema compositivo che caratterizza la parte decorativa più singolare del torrione di San Michele (al centro è una finestra ai cui lati sono allegoria e santo e sotto questi ultimi le due epigrafi relative) si ripete anche su quello dedicato a sant’Antonio Abate, entrambi sulla facciata castellana verso la città. L’epigrafe sotto quest’ultimo santo recita su quattro righe in lettere capitali: «Numen adens huius mo/lis custodia [s]a[c]rum / sulfureis hostes ignibus / usque ferit. A(nno) D(omini) 1515» ovvero: «Il sacro nume, custode di questa mole, affrontando i nemici li colpisce persino con fuochi sulfurei. Nell’anno del Signore 1515». L’incisione della Temperanza sotto quella che era l’immagine di questa virtù recita su almeno due righe in lettere capitali:« […c.a 23 lettere…] / […ca. 13lettere…]r[.]e tem[p]ero / se(m)p(er) mar[ti]a facta colit». La traduzione, data l’incompletezza del testo originario fortemente lacunoso a causa del degrado della pietra, si presta ad almeno due interpretazioni. Prima ipotesi: “[…] (io, la Temperanza,) modero sempre, (egli) cura gli esercizi di Marte”. Seconda ipotesi: “[…] (io, la Temperanza,) modero, (egli) cura sempre gli esercizi di Marte”. Sembra di cogliere una certa opposizione tra “tempero” e “Martia facta colit” come se la Temperanza volesse esprimere il suo tentativo di moderare qualcuno (il signore del castello?) che invece si occupa d’imprese belliche. Come già accennato, sui quattro torrioni è presente un numero variabile di aperture sostanzialmente di due tipi: alcune basse, strette, chiuse superiormente o da un arco ribassato oppure da un architrave sormontato a sua volta da un arco di scarico sempre ribassato, altre, invece, più alte, quadrangolari di varie dimensioni (alcune con stipiti, architravi e facce esterne dei davanzali ora con decorazioni di varia natura, ora lisci). L’esistenza di tali aperture è dettata, in effetti, da esigenze funzionali e soprattutto difensive. Da queste si doveva, infatti, osservare il territorio ed eventualmente proteggere la fortezza. Il loro numero, naturalmente, aumenta nei due torrioni esterni visto che era da controllare tutta la campagna circostante e soprattutto le vie di accesso alla città medesima da quella parte. Il numero delle aperture si riduce, invece, nei due torrioni urbani. Alcune di esse erano destinate a proteggere i fianchi di ciascun baluardo e la porta di accesso addossata al fossato, altre invece rispondevano a una logica più strettamente legata alla struttura della città. Sul torrione di Sant’Antonio Abate una cannoniera punta dritta verso la strada che costeggia quello che era il circuito delle mura; un’altra punta, invece, verso la strada che conduce alla piazza principale della città e prosegue in direzione della chiesa parrocchiale e quindi di un’altra porta urbica. Sul torrione di San Michele Arcangelo una finestra rettangolare sembra puntare verso quella medesima strada “vista” dal torrione di Sant’Antonio Abate che conduce al centro del paese. Tale ridondanza non deve sorprendere. Un accorgimento spesso seguito in questo tipo di costruzioni è proprio quello secondo il quale i medesimi punti nevralgici circostanti dovessero essere “osservati” e quindi sotto il tiro di più postazioni castellane anche in funzione dei tempi, non brevissimi all’epoca, di ricarica delle armi.
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Un’altra finestra con decorazioni a bassorilievo è quella, sul torrione di Sant’Antonio Abate, puntata verso la strada che collega il castello alla piazza principale. A sinistra di tale finestra, guardando il baluardo dall’esterno, è l’effigie del Santo titolare, a destra è l’allegoria a bassorilievo della Temperanza (oggi essa è leggibile solo per grandi linee: una mezza figura che emerge dalla corona posta sull’elmo coprente il capo del leone il quale con la sua zampa destra regge uno scudo da torneo con le insegne della famiglia Delli Monti, i committenti). Stesso schema compositivo si ritrova nell’allegoria raffigurante la Fortezza (pure da torneo lo scudo che è sorretto da un leone, sempre a figura intera, con lo stemma della medesima famiglia). In quest’ultimo caso s’inverte, però, l’ordine delle lastre scolpite perché l’altorilievo con san Michele è a destra della finestra rettangolare, a sinistra, invece, è posta l’allegoria. Nei torrioni esterni (San Giorgio e San Giovanni Battista) le lastre con santo e allegoria non si addensano più attorno a una finestra in particolare; essi sono collocati, sempre sul redondone, nell’intervallo fra due aperture ma da queste ultime distanti. Nonostante tale diversità di posizione reciproca in senso stretto si deve però osservare il mantenere fede a uno schema generale rilevabile già nei due torrioni interni: le raffigurazioni dei santi sono quelle che giacciono più vicine al tratto lineare di fortificazione che collega i due torrioni e corre in modo pressoché parallelo al circuito murario urbano; le allegorie si volgono più verso, invece, i tratti di fortezza ortogonali alle precedenti cortine. Tale variazione potrebbe essere messa anche in relazione con particolari punti di vista, come ad esempio le vie di accesso al castello e alla città: nel caso dei due torrioni interni tutte le immagini, sacre e allegoriche, sembrano trovare un senso e un’unità visiva in funzione di quella che si suppone fosse la strada cittadina principale già qui ricordata. In sostanza chi fosse entrato nello slargo davanti al castello uscendo da quella strada e provenendo dalla piazza principale non solo sarebbe stato sotto l’occhio vigile di almeno un paio di postazioni per il tiro ma avrebbe visto subito le immagini di santi che danno il titolo ai torrioni e poi, avvicinandosi ulteriormente a essi ne avrebbe “sentito” tuonare anche le parole e i moniti. Per quanto riguarda, invece, le medesime immagini sui torrioni esterni, la situazione paesaggistica e con essa quella viaria coeva ai tempi della costruzione del castello appare oggi modificata e forse completamente perduta. Un supplemento di analisi urbana sarebbe auspicabile. Le cartografie ottocentesche rivelano, però, l’esistenza di una strada che, collegando quella parte della penisola salentina cui guarda il fronte esterno del castello, passava anche attraverso la città, la sua piazza centrale e quindi, uscendo dal centro abitato, proseguiva verso il capoluogo Lecce. Le due cannoniere accoppiate che sono sul torrione di San Michele, stesso livello, subito dopo quelle con le effigi di santo e allegoria, allontanandosi da queste ultime sul circuito della torre in senso orario, è probabile siano da mettere in relazione, invece, con la posizione della cinta muraria che terminava in corrispondenza del fossato castellano; non è da escludere che esse proteggessero l’una il filo interno, l’altra quello esterno delle mura in applicazione di un tipo di difesa detta radente.
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I pannelli lapidei di cui fino ad ora si è scritto sembrerebbero comunicare però anche qualcosa di più se solo si considerasse meglio la loro posizione. Nell’epigrafe della Prudenza, torrione di San Giorgio, l’allegoria si definisce la prima delle sorelle, essa esibisce e custodisce, come detto, le insegne dei Delli Monti (il leone raffigurato ha una zampa appoggiata sullo scudo con lo stemma della famiglia); nell’epigrafe sul torrione di San Michele la Fortezza si definisce la terza ninfa / allegoria (https://books.google.it/books?id=PKgwAAAAMAAJ&pg=PA418&dq=prudenza+giustizia+fortezza+temperanza&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjk9bmlgcnSAhXpAMAKHcxdCeEQ6AEIIjAC#v=onepage&q=prudenza%20giustizia%20fortezza%20temperanza&f=false). Se si tenesse fede a quanto letto, inoltre, in due epigrafi in particolare ovvero che la Prudenza è la prima e la Fortezza la terza verrebbe da ricordare Cicerone (De Inv. II, 159 – http://www.thelatinlibrary.com/cicero/inventione2.shtml) che elenca le virtù cardinali nel seguente modo:«[…] Habet igitur partes quattuor: prudentiam, iustitiam, fortitudinem, temperantiam.». Ciò consentirebbe di numerare gli stessi torrioni: la prima allegoria è sul primo torrione, quello di San Giorgio; la seconda, proseguendo in senso antiorario, è sul secondo, quello di San Giovanni Battista; la terza è sul terzo quello di San Michele Arcangelo; la quarta sul quarto e ultimo, quello di Sant’Antonio Abate. Non è da escludere, in termini più specifici, che tale sequenza non sia solo simbolica ma corrisponda anche a una cronologia degli eventi costruttivi e, almeno per quelli di San Michele e Sant’Antonio Abate, lo è davvero considerando le date su di essi incise come si vedrà a breve. Non sembra irrealistico pensare che il torrione di San Giorgio (prima allegoria) e quello di San Giovanni Battista (seconda allegoria) siano stati costruiti proprio per primi perché quelli più esterni (e perciò necessari prima degli altri alla difesa di castello e città); a seguire poi i rimanenti verso il borgo, all’interno del circuito murario. A proposito di questi ultimi si ricorda che essi sono entrambi datati: su quello di San Michele è un’epigrafe incisa con la data «AD 1514»; sull’altro, quello di Sant’Antonio Abate, è un’altra nella cui parte finale si legge inciso «AD 1515». Quest’ultimo millesimo pare sia stato letto fino ad oggi dalla storiografia come «1519» ma un’analisi di dettaglio dell’incisione ha messo in evidenza una sostanziale identità fra il primo ed il secondo «5».
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Quanto detto, fermo restando la successione temporale dichiarata nelle epigrafi dei due torrioni verso la città, porterebbe a supporre che i lavori del circuito esterno del castello siano cominciati qualche anno prima del 1514 (data incisa sul torrione di San Michele Arcangelo) e a partire forse dal torrione di San Giorgio. Non si può escludere in più che il cantiere abbia avuto inizio proprio da quest’ultimo torrione perché esso svolge un ruolo la cui singolarità è legata alla difesa della Ca’ Porta, forse la più importante della città visto che si trova lungo quell’asse stradale interno, qui già più volte citato, che costeggiando il castello conduce alla piazza principale e prosegue verso la chiesa madre e poi Lecce. A quanto detto aggiungiamo alcuni dettagli che potrebbero arricchire il quadro conoscitivo. Nei bassorilievi raffiguranti le allegorie, i leoni con elmo reggono rispettivamente uno scudo da torneo (Fortezza e Temperanza, verso la città); uno scudo ellittico, dal profilo più essenziale, meno decorativo e perciò più simile a quelli usati in battaglia, invece, è presente nelle allegorie sui torrioni esterni. Dal punto di vista stilistico, benché lo stato conservativo della pietra non consenta un’analisi di dettaglio estensiva delle due allegorie sulle torri esterne, il disegno e la caratterizzazione degli svolazzi del cimiero è la medesima tanto da far pensare a uno stesso artista, diverso in ogni caso dai due che scolpirono la Fortezza / san Michele e la Temperanza / sant’Antonio Abate.
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Chiarito anche il contesto in cui è il san Michele Arcangelo di Corigliano appare necessario approfondire l’analisi formale non solo di quest’opera ma anche di quella ritrovata a Lecce. Come si diceva le due statue hanno la medesima posizione rispetto al piano (solo ipotetico quello della scultura dei Gala) di fondo su cui si schiaccerebbero le ali; di fatto, però, ciò non costituirebbe una invenzione specifica dello scultore. Si consideri, ad esempio, un dipinto facente parte di un trittico proveniente da Andria in provincia di Bari (Fig. 29. San Michele Arcangelo e sant’Antonio da Padova, ottavo decennio del XV° sec., tempera su tavola, 116 x 50 cm. Bari, Pinacoteca Metropolitana “Corrado Giaquinto”: http://www.pinacotecabari.it/index.php/patrimonio-museale/opere/catalogo-generale?option=com_content&view=article&lang=&Itemid=134&id=28&sala=&abc_mode=details&abc_rid=1575&auth_mode=&auth_rid=&auth_sort_field=&auth_sort_field_by=&auth_sort_field_type=&auth_sort_type=&auth_page_size=&auth_p=&abc_page_size=10&abc_p=1&abc_sort_field=0&abc_sort_type=ASC) di Bartolomeo Vivarini (Venezia, 1430 c.a – dopo il 1491) in cui proprio il san Michele, in un’armatura simile a quella dell’angelo a Corigliano, è dipinto di fianco come in entrambi i casi, dei Gala e dei Delli Monti. Questa coincidenza, però, non può far pensare a un’influenza diretta di questo Vivarini (così come degli altri pittori e scultori qui ricordati) sull’attività di Gabriele Riccardo ma, più semplicemente, la non distanza dello scultore leccese da quella che era la cultura figurativa del suo tempo.
Fig. 29. Autore: Bartolomeo Vivarini, San Michele Arcangelo e sant’Antonio da Padova, ottavo decennio del XV° sec., tempera su tavola, 116 x 50 cm. Bari, Pinacoteca Metropolitana “Corrado Giaquinto”.
Il confronto, infatti, fra questo Vivarini e i due san Michele Arcangelo (a Lecce e Corigliano) che in quest’analisi si stanno rivelando come attribuibili a Gabriele Riccardo, è, più ragionevolmente, di carattere soprattutto generale; in questo senso è utile rilevare, infatti, la diversità del modo di disegnare e, nel nostro caso, anche di intagliare i volti. Quelli di Bartolomeo Vivarini appaiono spesso caratterizzati da una durezza dei lineamenti che non troviamo nelle opere di Gabriele Riccardo attento, invece, a una resa più umana e realistica della figura; in quest’ultimo artista non sembra esserci, inoltre, la rincorsa a un tipo di umanità ideale, platonica e a tratti sempre uguale a se stessa. A dire il vero, però, proprio in quel dipinto di Vivarini l’angelo, colto nel suo violento gesto contro il drago, si accompagna con un’altra figura, quella di sant’Antonio da Padova. Questa struttura compositiva spingerebbe a ipotizzare che anche a Corigliano, il combattimento scolpito possa essere parte di una scena più ampia in cui sia coinvolta la medesima finestra verso cui è rivolto il corpo del combattente angelico. E d’altro canto, a ben vedere, quel drago sembra essere stato bloccato proprio quando è su una delle soglie della fortezza. Il tutto appare, quindi, in una rappresentazione che vede l’alternarsi di reale e virtuale, di elementi ora scolpiti e disegnati, ora reali; questo interessante gioco fra le varie dimensioni di una rappresentazione (anche l’uso di una parola è tale) diventa ancora più esplicito nel vicino baluardo di Sant’Antonio Abate. Qui il fuoco, ad esempio, è evocato, rappresentato, appunto, prima come simbolo iconografico, poi come parola minacciosa nell’epigrafe sotto l’immagine del Santo stesso e quindi come fuoco reale di un cannone posizionabile proprio nel profondo vano strombato che è dietro quella finestra, dentro la sala ottagona alle spalle del titolare del torrione stesso.
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Un altro aspetto fino a ora mai notato, inoltre, è che i due san Michele hanno pressoché le medesime dimensioni (quelle della scultura a Corigliano sono state rilevate in modo indiretto sulla base del numero dei conci di tufo entro cui è inserita l’opera tutta) e un molto simile disegno delle ali, delle mani, della capigliatura e così pure del drago (la testa, le ali, l’attacco di queste ultime al corpo).Tutta questa serie di elementi consente di avanzare l’ipotesi di essere in presenza di un unico autore. In più, rispetto all’altro dei Gala, l’angelo di quel torrione ha il volto ben delineato (eccetto che per la parte terminale del naso del quale non sono visibili le narici) tale da consentire un approfondimento ulteriore. A attirare l’attenzione è, per esempio, il modo attraverso cui lo scultore ha realizzato gli occhi con un andamento di volumi e linee (caratteristico, infatti, proprio l’incurvarsi di quella che costruisce la palpebra inferiore in prossimità della sacca lacrimale) che ritroviamo molto simili e, soprattutto dobbiamo dire, in modo compatibile, nelle opere scultoree più certe di Gabriele Riccardo come il David e il San Nicola; a questo indizio (perché solo tale è) poi aggiungiamo che la struttura (essa, invece, è molto più significativa e utile per l’attribuzione) delle ali angeliche ritorna simile, nei suoi elementi essenziali, nelle autografe e datate colonne otrantine dove (colonna in posizione B, ovvero la seconda da sinistra), tra le altre cose, compaiono più teste di drago a decorare gli elmi degli infedeli oramai sconfitti (Figg. 30 – 33).
Figg. 30 – 33. Confronti stilistici; le opere di Gabriele Riccardo citate in queste tavole sono le seguenti: A, colonne a Otranto; B, san Michele Arcangelo a Lecce; C, san Michele Arcangelo a Corigliano d’Otranto; D, presepe in cattedrale a Lecce; E, David che scrive, Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano”; F, san Nicola, chiesa degli Olivetani a Lecce. I numeri che accompagnano ciascuna lettera maiuscola (indicativa dell’opera) indicano in successione solo il numero del dettaglio scultoreo preso come riferimento.
Figure
Questo tipo di analisi, quella cioè con il passaggio attraverso il san Michele Arcangelo di Corigliano, consente con più facilità di guardare in modo diverso alla scultura a Lecce. Quelli che apparivano solo come indizi formali acquistano, in un’analisi comparata, un senso più profondo. Soffermiamo l’attenzione su alcuni di essi: la testa e la caratterizzazione della pelle del drago, il naso del Santo (le cui narici sono realizzate tramite due fori ottenuti usando probabilmente un trapano per cercare di ricostruire una rappresentazione anatomica la più fedele alla realtà) e soprattutto le ali che meritano un approfondimento in più. Nel caso leccese il numero delle linee di piume è maggiore (5 in quello dei Gala, 3 a Corigliano) ma si tratta di una variazione sul tema che avviene con il modo tipico di chi opera in accordo con un principio di creazione personale e non quello della semplice imitazione; e così pure analogo, in entrambe le statue, è il modo di chiudere superiormente sempre le ali dove abbiamo una sovrapposizione non uniforme di più piume (medesima è, inoltre, la struttura di ogni singola piuma caratterizzata da una nervatura centrale); una soluzione simile è, ad esempio, in Giovanni Angelo d’Antonio da Bolognola – Annunciazione e Cristo in pietà. 1455 c.a (1456?); tempera su tavola, 220 x 166 cm. Provenienza: Piegusciano di Camerino, convento della Santissima Annunziata di Spermento (http://www.regione.marche.it/Regione-Utile/Cultura/Catalogo-beni-culturali/RicercaCatalogoBeni/ids/22993/Annunciazione-e-Deposizione-di-Cristo-nel-sepolcro, http://www.museicivicicamerino.it/cms/testo.php?id_testo=134486203879415).
Figg 34 – 35. Giovanni Angelo d’Antonio da Bolognola – Annunciazione e Cristo in pietà. 1455 c.a (1456?); tempera su tavola, 220 x 166 cm. Provenienza: Piegusciano di Camerino, convento della Santissima Annunziata di Spermento.
Sempre alla luce dell’attribuzione a Gabriele Riccardo dell’angelo coriglianese si comprendono e contestualizzano meglio i dettagli dell’altra scultura a Lecce come le anatomie delle mani (ad esempio forma delle dita e delle unghie) senza dimenticare, infine, il sistema venoso che compare sugli avambracci proprio dell’angelo dei Gala e similmente nel San Giovanni Battista del ricordato presepe in cattedrale a Lecce. Ritornando alla statua a Corigliano si deve precisare che non ci è stato consentito compiere un sopralluogo dentro il torrione di San Michele, nella stanza alle spalle della statua, al fine di verificare lì l’esistenza o meno di un apparato decorativo, così come esiste nel torrione di Sant’Antonio Abate, il quale potrebbe essere stato eseguito da Gabriele Riccardo; siamo in attesa che l’ente proprietario del castello, il Comune, ci consenta l’accesso. Andrebbe segnalato in più che il grande riquadro lapideo su cui è san Michele fa il paio, ma senza simmetria rispetto alla finestra cui è congiunto, con altro riquadro lapideo, al centro del quale è uno scudo da torneo inclinato su cui è la raffigurazione scolpita, sempre a bassorilievo, dello stemma della famiglia Delli Monti sorretto dalla zampa di un leone seduto, a figura intera. Il capo di questa fiera è racchiuso in un elmo su cui è una corona sommitale da cui emerge una mezza figura femminile in abito classico che, fra le braccia aperte, sostiene una colonna scanalata e rudentata spezzata al centro. Quest’ultima figura, rappresentazione dell’allegoria della Fortezza, non meno delle altre, la si può definire “parlante” in virtù dell’epigrafe sottostante dove si legge inciso su quattro righe di testo: «Tertia sum vi[r]v[m f]ortis/sima nympha sororum, / quae quum opus est domi/no robur ad arma dabo» ovvero: «Sono la terza delle sorelle, fortissima compagna dei soldati, e, quando occorrerà al signore, darò vigore ai suoi armati».
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L’allegoria è rappresentata con le braccia aperte, dispegate mentre tira verso di sé, facendo leva sul petto, il fusto della colonna che così si spezza nella mezzeria. In questa rappresentazione simbolica, la realtà, quella materica più che mai, irrompe con un ulteriore concetto di Fortezza, fornendone cioè uno semplicemente fisico. In termini più generali, infatti, essa è una delle quattro virtù cardinali assieme alla Giustizia, alla Temperanza e alla Prudenza (http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p3s1c1a7_it.htm) che abbiamo già incontrato sugli altri torrioni; in particolare dobbiamo, però, ricordare che: «La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene», là dove il contraltare, il male, è rappresentato dal drago. Tutte assieme concorrono a costruire non solo il castello ma anche la figura del “Principe” come difensore della Fede in un equilibrio di forza fisica e morale. La figura dell’allegoria ha lunghi capelli, al vento, simili a quelli del vicino angelo; del volto è leggibile il suo solo occhio a sinistra riprodotto con una semplificazione formale, quasi compendiaria, analoga a quella che troviamo nelle statue sommitali del presepe leccese. Di questo riquadro colpisce, inoltre, il fatto che la vitalizzazione luministica delle superfici avviene anche attraverso l’uso di una decorazione a traforo similmente a quanto si vede sulle colonne otrantine. Non è certo questo trattamento un’invenzione di Gabriele Riccardo ma tale dettaglio, indicazione di un’attenzione particolare alle superfici lapidee dei soggetti rappresentati soprattutto se destinate a una visione ravvicinata, aiuta a capire meglio, in termini generali, anche il disegno inciso con cui si riproducono le squame sulla testa del drago nella statua dei Gala. E’ la capacità di entrare nei dettagli più piccoli, il saper dosare l’essenzialità del segno così come il peso della mano e dello scalpello passando dal colpo energico della sbozzatura a quello più delicato necessario per riprodurre il tratto sottile di una scaglia di drago. Eppure fra le due statue (quella leccese e quella coriglianese) c’è una differenza che vale la pena rilevare perché riteniamo evidenzi la capacità narrativa del fare scultura di Gabriele Riccardo. Il san Michele a Corigliano appare una figura pesante (a rendere ancora di più questa idea svolge un ruolo importante l’armatura che lo riveste disegnata e scolpita in ogni dettaglio e con singolare realismo; si veda a questo proposito la parte in maglia metallica) che schiaccia sul piano della mensola (ovvero sul duro suolo) il drago. Il Santo sta per sferrare un fendente, forse decisivo, ma il volto non lascia trasparire nessuno sforzo come se fosse certo della vittoria, come fosse in grado di svelare un futuro che di lì a pochi istanti sta per compiersi davanti ai suoi occhi e a quelli di chi lo osserva.
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Nell’altro caso, quello a Lecce, Antonio Cassiano aveva scritto di una figura «quasi in movimento». Nessun «quasi» verrebbe da chiosare subito, l’azione è, infatti, piena, viva, violenta, il dinamismo è chiaro, totale, perché si sente e si descrive il peso di una caduta e la velocità dell’azione. L’angelo, sulle nuvole, sembra appena atterrato sul drago e con le gambe piegate appare quasi giacere seduto a cavalcioni – oppure è appena caduto sul dorso dell’animale e le gambe sono piegate per reazione fisica all’impatto – ma in equilibrio quasi instabile perché sotto l’onda di un movimento. Il san Michele dei Gala, quindi, comunica, esprime altro dalla staticità e la scena è diversa, il luogo è diverso. La lotta fra il Bene e il Male avviene nel cielo; al di sotto del drago infatti sono scolpite vaporose nuvole. Inevitabile, per l’aereo scontro, il riferimento al passo biblico (Apocalisse di Giovanni 12, 7 – 8; C.E.I.: http://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Ap12%2C7-8&formato_rif=vp): «[7] Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, [8] ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo» così come nella tavola 11 dell’Apocalisse di Giovanni (databile al 1496-1498; una seconda edizione apparve nel 1511) raffigurata (Fig. 36: https://it.wikipedia.org/wiki/Apocalisse_(D%C3%BCrer)#/media/File:Durer,_apocalisse,_11_san_michele_sconfigge_il_drago.jpg) da Albert Dürer (Norimberga, 1471 – 1528).
Fig. 36. Albert Dürer, tavola 11 dell’Apocalisse di Giovanni (databile al 1496-1498; una seconda edizione apparve nel 1511).
Se solo poi volessimo, provocatoriamente, attualizzare quella scena si potrebbe anche ricordare un film come Avatar in cui il protagonista si lancia nel vuoto e piomba in volo sul drago (un ikran, nella versione cinematografica, che è simile a uno pterosauro) a dimostrazione del perdurare nella storia psicologica umana di certe figure e scene. Nella scultura dei Gala l’animale, sorpreso, gira la testa spalancando le fauci verso l’angelo che a sua volta è pronto a colpire, lo spadone è in attesa che il braccio gli trasmetta il movimento. Sul volto del san Michele, anche in questo caso, si leggono una calma serafica e soprattutto una bellezza femminile che, come vedremo, è tutt’altro che irreale, astratta, improbabile. L’esistenza del vento si percepisce dal gonfiarsi delle vesti ma anche dai capelli tenuti assieme da una sottile stringa attorno alla quale rigirano, con ordine simmetrico, le ciocce come onde (nella statua di Corigliano del fermacapelli si vede principalmente la parte centrale triangolare a lati curvilinei). In tutta questa concitazione, san Michele, in lotta, sostiene anche il suo simbolo iconografico per eccellenza ovvero la bilancia di cui oggi si riconosce solo l’asta tenuta inclinata nella mano sinistra (a Corigliano la medesima mano sostiene, invece, un piccolo scudo dalla terminazione superiore sferica sul quale si avventano le fauci spalancate di quel drago); è proprio con quello strumento che l’angelo peserà le anime dei defunti distinguendo i giusti dagli empi.
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Sempre a Corigliano il corpo dell’Angelo è completamente coperto, come si è già qui osservato, da un’elaborata corazza; nel San Michele dei Gala solo il torso lo è, il resto è vestito da un abito le cui pieghe lascerebbero supporre un tessuto di alta qualità (raso?); gli avambracci sono scoperti e su di essi l’autore lascia intravedere il sistema venoso e intuire lo sforzo così come accadrebbe per un essere umano e non una figura divina quale è un angelo. Forse mai, in questo ambito geografico e cronologico, una figura angelica è stata ritratta con così umano realismo. Questo senso di caduta, o meglio la lotta aerea è poi enfatizzata dalle vesti, dal fatto cioè che l’angelo ha solo una parte della corazza che lo riveste comprimendogli il petto; al di sotto di quell’armatura parziale è un’ampia veste che si schiaccia sulle gambe mettendo in evidenza le anatomie; la stessa, poi, si tira su verso la parte alta delle braccia affastellandosi. E’ la conseguenza del movimento, della caduta e del vento; in ciò ricorda l’abito sventolato nella statua della Maddalena nel Compianto su Cristo morto a Bologna di Nicolò dell’Arca (de Apulia) scossa, però, da un’altra “caduta”, quella del Cristo morto steso in terra lì davanti a lei straziata da un urlo contrito nell’essere inanimato della materia. (https://it.wikipedia.org/wiki/Compianto_sul_Cristo_morto_(Niccol%C3%B2_dell%27Arca)#/media/File:Niccol%C3%B2_dell%27arca,_Compianto_sul_Cristo_morto,_Chiesa_di_S._Maria_della_vita,_Bologna_05.JPG) .
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Un’altra riflessione a proposito del san Michele a Corigliano si potrebbe fare rispetto alla cronologia. Verrebbe da valutare l’ipotesi che il grande altorilievo del Santo e con esso il bassorilievo della Fortezza possano essere stati aggiunti in un momento successivo alla costruzione del torrione (1514). L’analisi della muratura attorno alle parti in pietra leccese delinea, però, una situazione non traumatica, estranea cioè a forzature come potrebbe essere un inserimento successivo dell’altorilievo angelico. A questo proposito andrebbe segnalato quanto inciso nel medesimo torrione sull’architrave della finestra collocata al di sotto del redondone e quasi in corrispondenza della scultura raffigurante il san Michele. Sulla parte piana di una cornice modanata, si legge su due righe di testo a caratteri capitali: «Huius propugnaculi fabricator Angelus (Con)doleus Coriolane(n)sis / A(nno) D(omini) 1514» ovvero: «Il costruttore di questo baluardo (fu) Angelo Condoleo di Corigliano nell’anno del Signore 1514». Ancora una volta, quindi, un “Angelo” legato a questa fortezza e, di certo almeno, a quel baluardo. In questo testo il termine usato propugnaculum – i si potrebbe, infatti, riferire, in virtù del suo significato più stretto, al solo torrione e non agli altri tre benché tutti, con l’eccezione di quello dedicato a Sant’Antonio Abate, mostrino caratteristiche formali e decorative simili. A rigore, però, non si può neanche escludere in assoluto che il termine proprugnaculum sia stato usato in modo più estensivo riferendosi all’intera fortezza rispetto al perimetro del circuito murario (il castello sorge, infatti, a cavallo della linea difensiva); così come non possiamo escludere, allo stato attuale delle ricerche, che Angelo Condoleo oltre che «fabricator» possa essere stato in più uno scultore e quindi avere realizzato anche alcune parti come, ad esempio, le decorazioni del torrione di Sant’Antonio Abate.
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Altra questione interessante, legata sempre a quest’ultima epigrafe, è relativa al «fabricator» ovvero Angelo Condoleo. Per completezza si ricorda che il cognome dalla storiografia è riportato come «Lolleus»; sullo stesso argomento si segnala pure: «[…] per chi non lo sapesse il cognome Lolli era ed è ancora diffuso nel centro [Corigliano, n.d.r.], per quanto, stranamente, sia stato letto nelle forme Conioneo o Corioneo [i corsivi sono dell’autore], cognomi la cui attenzione risulta storicamente negativa in area salentina» (Cazzato M.; Guida ai Castelli Pugliesi; Galatina; Congedo; 1997, p. 60). Per quanto riguarda la trascrizione è da notare che nella parte iniziale di quello che sarebbe il cognome è un segno di abbreviazione simile a un punto interrogativo seguito poi da una «D» al cui interno si legge una piccola «O» e quindi «LEUS» con la «E» più piccola, a mezza altezza circa nel rigo, fra «L» e «U». Interessante, e forse a tratti problematica, la «D» ottenuta affiancando a una «I» il segno «Ɔ» con la parte sommitale di questultimo carattere che si appoggia in un punto poco al di sotto della sommità svasata della «I» medesima. Un motivo simile è assente in tutte le altre iscrizioni oggi leggibili del castello salvo che nell’epigrafe su cui giace la rappresentazione allegorica della Fortezza (ultimo rigo, al centro, la «D» in «AD» e quella nell’ultimo verbo «DABO»). Queste singolarità, il rapporto diretto fra testi epigrafici e immagini, il rapporto stilistico fra altorilievo di san Michele e bassorilievo dell’allegoria della Fortezza, lascerebbero propendere per una datazione di tali due sculture coincidente con quella dichiarata in quella finestra ovvero il «1514». Se ciò fosse ulteriormente confermato, queste due a Corigliano potrebbero essere le opere più antiche oggi note di Gabriele Riccardo. Il testo inciso sotto l’allegoria della Fortezza recita: «Tertia sum vi[r]v[m f]ortis/sima nympha sororum, / quae quum opus est domi/no robur ad arma dabo» ovvero: «Sono la terza delle sorelle, fortissima compagna dei soldati, e, quando occorrerà al signore, darò vigore ai suoi armati».
Dove era collocata la statua di san Michele Arcangelo dei Gala?
Come visto fino a ora la statua di san Michele Arcangelo ha obbligato ad aprire l’indagine verso luoghi, date, figure, significati inaspettati che inevitabilmente è necessario rinviare anche a successivi interventi di approfondimento. C’è però una domanda che ha attraversato silenziosamente fino a questo punto tali righe: che rapporto c’è fra la statua e la sua attuale sistemazione? Obbligati come siamo a omettere, per giuste ragioni di riservatezza, alcune informazioni possiamo segnalare, per il momento, che la storia della statua del san Michele Arcangelo a Lecce si intreccia con quella di Giovanni Battista Gala residente nel capoluogo salentino in quella che, a partire da fine Cinquecento, è l’isola della Trinità dei Pellegrini dove era collocato l’omonimo ospedale con la sua chiesa. Continuando l’indagine a ritroso nel tempo è stato possibile rilevare che appartenente alla famiglia Gala, proprio nell’isola detta, esisteva una piccola cappella che, nel 1809 identificata come quella dell’«Angelo Custode» (si è trovata, però, anche la denominazione di «San Michele Arcangelo»), di lì a pochi anni sarebbe stata trasformata in bottega. E’ stato possibile identificare quello che era il vano di questo edificio sacro: esso corrisponde alla prima stanza entrando nel ristorante oggi al civico 13 di Piazza Vittorio Emanuele a Lecce. La piccola chiesa di San Michele Arcangelo nel 1854 era già diventata una bottega; tale trasformazione potrebbe essere avvenuta nel 1844 quando cospicui lavori, tra cui anche alcuni relativi proprio all’ingombro generale della chiesa, furono compiuti per realizzare l’attuale antistante piazza. Se alcuni aspetti della vicenda storica, come ad esempio altri passaggi di proprietà della chiesa medesima sono in via di approfondimento, altri invece appaiono già ben delineati. Fino alla comparsa dell’ospedale dei Pellegrini (1585) l’isola dove sarebbe vissuto secoli dopo il Gala era detta dell’«Angelillo» plausibilmente in virtù della presenza di una chiesa la cui denominazione, come a breve si vedrà, era legata alla famiglia Barrera alcuni dei cui membri, Corvino, Leandro, Donato a metà del XVI° secolo abitavano proprio difronte la chiesa, nell’isola di Santa Irene o del Governatore.
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A questo punto è necessaria qualche precisazione utile soprattutto ai fini di una maggiore e migliore comprensione degli eventi architettonici oltre che scultorei. Amilcare Foscarini scrisse un saggio (Foscarini A., Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali, in Iapigia, a. VI, 1935, pp. 425 – 451; http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Japigia/1935/Articoli/fascicolo%204/Lecce%20d’Altri%20Tempi.pdf) nel quale riportava ampie notizie sulla struttura della città di Lecce nel 1508. Tale fonte, in seguito consultata anche da Nicola Vacca per un saggio di approfondimento sulle isole leccesi (Vacca N., Appunti e note, in Rinascenza salentina, a. VII, 1939, XXVI-XVII., – pp. 91 – 95; http://www.emerotecadigitalesalentina.it/file/1088#page/1/mode/1up), è andata persa durante l’ultima Guerra Mondiale quando una parte del patrimonio documentario dell’Archivio di Stato di Napoli andò distrutta a causa dei bombardamenti. Amilcare Foscarini, fra le isole leccesi, ne segnala una sotto il titolo dell’Angelillo (Op. cit., p. 428) e un’altra denominata della Trinità (Op. cit., p. 427). Di quest’ultima lo storico ne scrive come fosse quella dei Pellegrini la cui intitolazione, della Trinità, si ha, però, solo a partire dalla fine del Cinquecento; quella cui si riferisce il documento del 1508 potrebbe essere, invece, l’isola in prossimità del castello dove sorgeva appunto una chiesa sotto il medesimo titolo abbattuta per l’ampliamento di quella fortezza a partire dal 1539. Più interessante è, poi, il riferimento all’isola dell’Angelillo perché indicherebbe che, a questa data, la chiesa potrebbe essere stata già esistente tanto da denominare l’isola intera. La perdita del documento del 1508 appare così proprio in tutta la sua gravità. Un’altra fonte, questa volta letteraria, sembra fornire un’informazione in più. Giulio Cesare Intantino nella sua Lecce Sacra (ris. an. a cura di De Marco M., Nuovi Orientamenti Oggi, Gallipoli 1988, G. C. Infantino, 1634, p. 130) scrive di una cappella di Sant’Angelo in questi termini: «Fu Iuspatronato della famiglia Barliera. Il Fondatore di questa Cappella fu l’Abbate Camillo della Barliera; il quale la dotò di buone rendite con obligo, che vi si celebrasse ogni dì, e che in tutte le solennità di San Michele Arcangelo vi si cantasse il Vespro, e la Messa solennemente». L’autore di fatto, in questo caso, come altrove nel libro, articola la sua narrazione secondo un vero e proprio tragitto nella città, un percorso descrittivo reale attraverso il quale è possibile dedurre che la cappella cui egli si riferisce coincide, con buona probabilità, con quella sotto lo stesso titolo segnalata anche in un’altra circostanza. Alle parole di Giulio Cesare Infantino si potrebbe aggiungere, infatti, anche un’altra fonte ovvero una visita pastorale del 1544 (qui in appendice documentaria) dove si segnala la presenza di una chiesa di Sant’Angelo della Scala fondata da Francesco della Barrera, all’epoca già defunto. La relazione sullo stato delle chiese della città di Lecce, incompleta, abbraccia un arco temporale di poco più di un mese durante il quale, giornalmente, solo un numero più o meno ampio dei luoghi sacri è sottoposto all’attenzione del visitatore pastorale. Il medesimo giorno, probabilmente il 17 marzo 1544, la relazione interessa tre chiese: San Giorgio Capitorto, san Giovanni Chercio e, da ultima, proprio la chiesa di Sant’Angelo de la Scala di ius patronato degli eredi di Francesco della Barrera, il fondatore.
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Dall’analisi dei dati fino a ora espressi si può avere, quindi, certezza dell’esistenza di una chiesa dedicata a Sant’Angelo, posizionata nell’attuale isola della Trinità, per la quale il predicato “delli Barrera”, segnalato su base documentaria, lascia supporre ragionevolmente che si tratti della cappella di quella famiglia. A meno di ipotizzare un predicato ulteriormente specificativo dell’Angelo titolare che la distingua da altra omonima, si può supporre come una contraddizione in termini che la medesima famiglia, nella medesima città, nel medesimo tempo avesse un’altra cappella sotto il medesimo titolo. Ci si è chiesto se il predicato «de la scala» identificativo della cappella segnalata nella visita del 1544 possa costituire proprio l’eccezione al ragionamento appena esposto. In tal senso è stata particolarmente utile una doppia analisi: la prima riguardante la struttura della fonte ovvero la visita pastorale, l’altra relativa, invece, a una serie di atti notarili cinquecenteschi. Nel primo caso si è riscontrata – nonostante la visita, come detto, si sia svolta in un ampio arco temporale – l’esistenza di un fattore che possiamo definire “di prossimità” secondo il quale, come già osservato anche nel percorso elaborato e seguito da Giulio Cesare Infantino, alcuni gli edifici religiosi sono accumunati nelle singole giornate della visita proprio perché sarebbero fisicamente vicini. Nel caso specifico, in sostanza, le tre chiese di San Giorgio, San Giovanni e Sant’Angelo potrebbero essere state tra loro realmente vicine. A tal proposito si è provveduto, in particolare, allo spoglio di tutti gli atti cinquecenteschi (1573 – 1604) del notaio Cesare Pandolfo, custoditi presso l’Archivio di Stato di Lecce, che rogava spesso nella sua abitazione collocata nel portaggio (la città di Lecce era divisa in portaggi / quartieri che prendevano il nome dalle singole quattro porte urbiche) di san Biagio e cioè proprio l’area urbana più interessante per quest’analisi. L’indagine di quegli atti notarili (e non solo a dire il vero) ha consentito, in termini più generali, di comprendere i rapporti di “prossimità” o meglio di “vicinanza” fra molte delle cappelle citate nella visita pastorale del 1544. Fra i dati raccolti, più di tutti, sono sembrati utili quelli segnalati in alcuni di quei notarili. Si apprende, infatti, che un’isola, collocata nel portaggio di san Biagio, abitata da molti membri della famiglia «delli Schieri», fra cui il noto architetto Paduano, era difronte alla cappella di San Giorgio, quest’ultima a sua volta era in prossimità del convento di Santa Chiara; si segnala, per completezza, un’altra cappella sotto lo stesso titolo, accompagnata però dal predicato “degli Alari” collocata in prossimità della pubblica piazza. La medesima isola, che qui per brevità chiameremo “degli Schieri”, era vicina proprio alla cappella di sant’Angiolillo delli Barrera.
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Per il caso della cappella di San Giorgio non è stata, però, rinvenuta la specificazione “Capitorto” (probabilmente l’aggettivo scaturisce direttamente dalla posizione del capo “girato” del Santo rappresentato, spesso a cavallo, mentre guarda e trafigge il drago con una lancia) così come indicato nella visita del 1544. Nonostante quanto rinvenuto a tal proposito siamo obbligati, però, a porre comunque quest’analisi sotto l’egida della probabilità e del condizionale. Sulla base di tutto ciò risulta probabile l’ipotesi che la cappella di sant’Angelo de la Scala, ricordata nella detta visita pastorale, sia proprio quella citata nelle pagine da Giulio Cesare Infantino. Se così fosse le informazioni fornite da quest’ultimo potrebbero essere integrate con altre come, ad esempio, il fatto che il fondatore non sarebbe stato Camillo della Barrera ma quel Francesco della Barrera qui già citato. Vero è, però, che anche Giulio Cesare Infantino ricorda la chiesa come di ius patronato della famiglia e che l’intervento beneficiale di Camillo della Barrera (di questi è traccia anche negli atti notarili esaminati) avrebbe posto rimedio a una situazione dotale della cappella di fatto povera. Altro aspetto da rilevare è che – se vera l’associazione e coincidenza delle “due” cappelle, quella della visita pastorale e quella segnalata dall’Infantino – l’intervento dell’abate Camillo sarebbe successivo alla data della visita pastorale del 1544; andrebbe aggiunto che questo religioso si trova citato fra i componenti del Capitolo della cattedrale di Lecce solo fino al 1552, successivamente non più. Ciò che possiamo dire con più certezza, quindi, è che nella stessa parte di città (attuale isola della Trinità) esisteva una cappella di Sant’Angelo o Angiolillo delli Barrera nella quale l’abate Camillo della Barrera dispose si celebrassero messe nel giorno di San Michele Arcangelo (esattamente il soggetto iconografico della statua leccese descritta in questa analisi); nella stessa isola, secoli dopo, la famiglia Gala fu proprietaria di una cappella sotto il medesimo titolo che poi trasformò in bottega. La statua che d’ora in poi potremmo definire, forse più correttamente, anche “dei Barrera” fu quindi trasferita in altra località fino a giungere nella sede attuale. E qui il nostro racconto, momentaneamente, si deve sospendere per le ragioni di riservatezza cui si accennava fin dall’inizio. In questo percorso giunto quasi al termine manca, però, un tassello.
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Fin dall’inizio, infatti, abbiamo scritto, facendo con irriverenza storcere il naso a chi non ama un approccio frattale alla realtà, di “quasi quattro scoperte”: il san Michele Arcangelo a Lecce, quello a Corigliano e in più l’allegoria della Fortezza. E quale sarebbe la “quasi quarta scoperta” che, come le altre, aiuterebbe a capire qualcosa di più di questo scultore? Questo tassello mancante è l’aver trovato la “diacronica modella” di Gabriele Riccardo ovvero Silvana Pampanini (Roma, 1925 – 2016). Al di là della beffa, però, vi è un frammento di verità in questo “quasi” quarto elemento. Si è, infatti, scritto più volte dell’attenzione particolare alla realtà che dimosterebbe Gabriele Riccardo nelle sue opere note. Ciò accade anche là dove si ritiene che essa non possa annidarsi. Il volto dell’angelo a Corigliano, soprattutto se osservato di profilo ovvero secondo quello che sembrerebbe essere il suo punto di vista principale, rimanda a qualcuno di realmente esistente. A tal proposito, in questo gioco, già definito diacronico, che solo la libertà della storia dell’Arte può consentire, si sono messi a confronto il volto dell’angelo a Corigliano con quello di Silvana Pampanini così come appare in una immagine (http://www.listal.com/viewimage/11626841) ricavata dal film La tratta delle bianche, 1952, regia di Luigi Comenicini. La celebre attrice non fu mai, naturalmente, modella di Gabriele Riccardo il quale, però, a quella bellezza femminile, non sarebbe stato del tutto insensibile. Il resto delle valutazioni lo lasciamo a questo confronto (Fig. 37) e con esso chiudiamo la prima parte di quest’analisi.
Fig. 37. A sinistra, san Michele Arcangelo, Gabriele Riccardo (attr.), 1514 (?); a destra, Silvana Pampanini, in La tratta delle bianche, 1952, regia di Luigi Comenicini.
Appendice documentaria.
(Biblioteca Provinciale di Lecce, ms. n°. 16, 17 marzo 1544, c. 14 nuova cartulazione)
Sancto Angelo de la scala
Continuando dictam visitationem deventum est ad dictam ecclesiam Sancti /
Angeli quam fuit assertum esse de iure patronatus heredum condam magnifici /
Francisci de la Barliera attamen nihil apparuit legitime /
que ecclesia nullum habet pannum in altari nullumque beneficium /
neque campanam in campanili sed tantum modo ortum retro dictam /
ecclesiam et reperitur quod de novo est constructa porta in pariete /
domorum Donati Peccarisii per quam habetur ingressus intus /
dictum iardenum ecclesie predicte. Et quia non apparet aliqua /
canonica concessio. Ideo fuit revocata dicta concessio et /
iniuntum predicto Donato presenti etcetera quod infra terminum dierum trium (claudere) /
habeat ianuam per quam est ingressus ad dictum ortum et iardenum.
Le trascrizioni dei testi sono a cura di: Fabio A. Grasso, Enrico Spedicato.
Le foto sono dell’autore.
Ringraziamenti
Arcidiocesi di Lecce, Arcidiocesi di Otranto, Provincia di Lecce, Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano”, Comune di Lecce, Biblioteca Provinciale “Nicola Bernardini”, Archivio Storico Comunale di Lecce, Biblioteca Arcivescovile Innocenziana, Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti Volpi” di Bari, Biblioteca Comunale “Francesco Piccinno” di Maglie, Archivio di Stato di Lecce, Archivio di Stato di Bari, Soprintendenza A.B.A.P per le province di Lecce, Brindisi e Taranto, Soprintendenza A.B.A.P per l’Area Metropolitana di Bari, Segretariato Regionale MiBACT – Puglia, Prof. Franco Contini, Enrico Spedicato, Dott. Giacomo Mazzeo, Dott. Antonio Gabellone, Dott. Paolo Perrone, Dott. Carlo Salvemini, Dott.ssa Valeria dell’Anna, Dott.ssa Cetti Caruso, Dott.ssa Antonella Simonetti, Dott. Luigi De Luca, Dott. Luigi Mazzei e l’elenco potrebbe continuare a lungo. A costoro, come ai tanti altri che avrei dovuto nominare ancora, un pensiero grato per la pazienza nell’aver ascoltato le mie tante domande animate solo da due forti passioni: quella per la ricostruzione storica e l’altra per la divulgazione di quanto giace in archivi, biblioteche e memorie umane.